giovedì 21 agosto 2008

Cloverfield

Rob, giovane americano di buone speranze (Michael Stahl-David) è sul punto di andare in Giappone per motivi di lavoro. I suoi amici – più o meno stretti, ex fidanzata compresa (la graziosa Odette Yustman) – gli organizzano una festa a sorpresa a Manhattan: ma questa sarà bruscamente interrotta da paurosi eventi catastrofici causati da un colossale mostro spuntato dal mare (una specie di piovra-crostaceo) che metterà a ferro e fuoco la città. Hud, incaricato di girare un filmino di addio per Rob, immortalerà gli eventi con la videocamera del fratello del festeggiato.
Cloverfield è innanzitutto un’abilissima operazione di pervasivo battage pubblicitario, durato svariati mesi nel 2007, che ha solleticato non poco l’attenzione dei fan – e non solo – di J.J. Abrams (produttore del telefilm Lost e regista di Mission: Impossible – III), vero padre della pellicola più del regista Matt Reeves, che confeziona una miscela mozzafiato – e nauseabonda sul grande schermo per la maggior parte degli spettatori – di horror, fantascienza, catastrofico e (sorpresa!) sentimentale, che paradossalmente è la componente dominante in quanto giustifica il senso delle azioni del protagonista e dei suoi amici. Comunque, quel che rende Cloverfield un monster-movie degno di nota, sorta di Godzilla dell’era di YouTube, è la forma: se la storia può essere criticabile perché tutt’altro che inedita, quel che la rende potabile è il modo in cui essa ci viene messa dinanzi agli occhi, ovvero mediante acrobatiche riprese in soggettiva catturate da una videocamera digitale per uso amatoriale. Chiaramente il film non è stato girato con una di esse, ma la resa è tutto sommato verosimile (appaiono evidenti i tentativi di far apparire instabili o frammentarie le riprese, opera del poco esperto amico del protagonista). In definitiva, nonostante alcune scelte criticabili e necessarie (cosa ha risvegliato il mostro? La videocamera è indistruttibile?), conta quel che Cloverfield dice: e, dato il punto di vista, lo dice benissimo. Il finale, poi, è coraggioso e coerente.
Il nome del film è lo stesso dell'area di New York nota come "Central Park" prima degli eventi.

CRITICA: «««

VISIONE CONSIGLIATA: I

sabato 2 agosto 2008

Bittersweet Life

Kim (Lee Byeong-Heon, una star in Sudcorea e Giappone) è il direttore del Crown Hotel di Seul, proprietà del boss Kang. Un giorno questo incarica Kim – da lui ritenuto l’uomo più affidabile – di tenergli d’occhio una ragazza che dice di amare, a causa di una sua assenza ‘per motivi di lavoro’. Inevitabilmente Kim s’innamora di lei, e pur sapendo di doverla eliminare perché tradisce il boss con un coetaneo, la risparmia: sarà l’inizio di un duro e sanguinoso percorso segnato dall’umiliazione e dalla vendetta.
Presentato fuori concorso a Cannes nel 2005 (ma nelle sale italiane nel Maggio 2006), questo riuscito noir notturno del talentuoso Kim Jee-woon (Two Sisters) è un elegante omaggio al cinema di John Woo, di De Palma e Scorsese in cui la tanto criticabile violenza è trasfigurata a tal punto (vedi le coreografie delle colluttazioni o delle sparatorie) da non impressionare, mentre i toni melodrammatici ed onirici – come nella miglior tradizione orientale – non stonano, dando invece sostanza ad una storia che, sulla carta, potrebbe apparire abbastanza scontata.
Una curiosità: il titolo originale del film, tradotto dal coreano significa La dolce vita, nome del ristorante dell’albergo in cui si svolge la rumorosa resa dei conti finale.

CRITICA: «««

VISIONE CONSIGLIATA: A