lunedì 12 ottobre 2009

The Wrestler

“Egli fu trafitto per i nostri peccati, schiacciato per le nostre iniquità”: queste parole del profeta Isaia vengono accostate nel film al suo malridotto protagonista, che ha deciso di dare la propria vita per gli altri. Di dare la propria carne. Venderla. Randy “The Ram” (“l’ariete”) Robinson, la carne, finisce persino per servirla al bancone di un minimarket. Lottatore di wrestling caduto in disgrazia, attraversa una ‘vita’ – diciamo ‘esistenza’ – di ordinario squallore: è terribilmente solo, è audioleso, pieno di cicatrici, porta abiti con rattoppi a vista. E per mantenersi continua a offrire per un pugno di dollari le proprie ridicole performance sui ring della più grigia provincia americana. Un po’ come Cassidy, spogliarellista/mamma over-40 di cui è cliente, che per i grezzi avventori del “Cheeques” è troppo vecchia. Lei crede ancora di poter dare una svolta alla propria vita, cosa che a Randy non riesce: sua figlia Stephanie non è più una bambina, ed il tentativo di averla più vicina, dopo anni di abbandono dovuti all’ubriacatura da successo, fallirà per una brutta ‘distrazione’ (cocaina + prostituta). Ormai “The Ram” è modernariato biologico, sgualcita icona su poster per chi fu ragazzino negli anni Ottanta, in cui furoreggiava. La vittoria del 1989 contro l’“Ayatollah” è storia, storia da smerciare in obsolete VHS abbinate a costose cartoline autografate (8 dollari l’una). Un inevitabile infarto legato ai troppi sforzi, all’età inadatta, ai cocktail di ormoni e alle pubbliche umiliazioni spianeranno la strada per l’ultima sfida dell’“ariete sacrificale”.
Il newyorchese Darren Aronofsky affronta nuovamente il tema del disfacimento del corpo: dopo Requiem For A Dream e L’albero della vita, The Wrestler dà spazio a chi, volendo o nolendo, si ritrova ad adattare e a vendere la propria fisicità per tirare a campare. Mickey Rourke non interpreta “The Ram”: lo è. La simmetria tra le due figure è sfacciatamente evidente, così com’è suggerita quella con il personaggio di Cassidy (una credibilissima Marisa Tomei). Rourke indossa in maniera tanto egregia quanto spontanea i panni e la pelle di un ‘anti-Rocky’, uno sportivo scalcagnato che non trova la redenzione passando sul ring. Lì (“Questo è l’unico posto dove non mi faccio del male”) riceve un’accettazione ed un calore umano – seppur effimeri – che in tanti gli negano, a patto però di ritrovarsi insanguinati (ed il sangue che lo spettatore vede è vero) e martoriati (allucinante lo scontro condito da scala, sparapunti e filo spinato). Non è un caso che il Nostro sia spesso pudicamente ripreso di spalle, e che per vederne il volto per la prima volta debbano passare ben cinque minuti di film, di cui lui è davvero la ragion d’essere. Infatti la sceneggiatura di R.D. Siegel è, a conti fatti, abbastanza convenzionale nella propria drammaturgia: a far la differenza vi è una regia antihollywoodiana, una fotografia che fa largo uso di cinepresa a spalla e l’ambientazione. Più che alle botte da orbi, lo spazio è dato ai retroscena, catturati con l’aria di chi prova compassione ed affetto per i teneri bestioni che li popolano. E la canzone di Bruce Springsteen dei titoli di coda lo conferma. In definitiva, The Wrestler è una pellicola sulla dignità dei corpi e delle anime che essi contengono. Mickey Rourke, per il proprio passato di attore – decaduto e ora risorto – e di pugile, ci fa vedere quali segni lascia il tempo su chi non sa reggere le luci dello showbiz ed il cannibalismo della folla. E il suo viso da marpione furbetto che fu è ben più lontano di nove settimane e mezzo fa.

CRITICA: ***

VISIONE CONSIGLIATA: A