giovedì 19 agosto 2010

District 9

Sbarcarono nel 1982, denutriti e in pessime condizioni. Furono condotti in campi di accoglienza temporanea, che ben presto si trasformarono in baraccopoli. I filmati su videotape lo testimoniano. Non stiamo parlando di immigrati africani giunti sulle nostre coste, ma di alieni, chiamati spregiativamente “gamberoni”. Accumulatisi a Johannesburg – sino a raggiungere il ragguardevole numero di un milione e ottocentomila, devono essere trasferiti in un nuovo campo/lager a 200 Km di distanza. E’ il “District 9 Relocation Programme” a stabirlo, rischioso progetto commissionato dal governo sudafricano – su spinta della popolazione intollerante – alla MNU (Multi National United), la seconda compagnia produttrice di armi al mondo, la cui legalità “è una semplice copertura” ed i cui candidi automezzi sembrano quelli delle Nazioni Unite. A dirigere le operazioni c’è sorprendentemente l’inetto ed ingenuo Wikus Van De Merwe (Sharlto Copley), genero del capo della MNU: un esemplare caso di nepotismo. Sotto l’ala protettrice di Peter Jackson produttore esordisce il sudafricano Neill Blomkamp, che girando ‘in casa’ con un piccolo budget di 30 milioni di dollari, confeziona una grande pellicola dalla straordinaria gestione dello spazio, del ritmo e della tensione, assente in molti strombazzati kolossal. Basandosi su un suo cortometraggio del 2005 (Alive In Joburg) incentrato sullo stesso concept, il regista amministra un ininterrotto flusso di immagini provenienti da vari supporti audiovisivi (videocamere, sistemi di ripresa a circuito chiuso, cineprese a spalla, ecc.) per dar vita ad un mockumentary d’azione che intrattiene spingendo alla riflessione, passando per una girandola di citazioni cinematografiche. Le scene di guerriglia urbana si rifanno a Black Hawk Down; la baracca/antro stracolma di uova aliene bruciate col lanciafiamme è presa da Aliens; il micidiale esoscheletro meccanico è esteticamente debitore verso Transformers ed Iron Man. Ma la citazione narrativamente fondamentale è quella riguardante la metamorfosi che subisce il protagonista venuto in contatto col DNA alieno: è il ritorno de La Mosca cronenberghiana, come evidenzia la scena della caduta delle unghie dinanzi allo specchio. Lì il mostruoso ibrido protagonista imparava – letteralmente – sulla propria pelle cosa significasse essere umani, a patto però di perdere brandelli di umanità. Qui avviene lo stesso, ma in uno scenario che è ‘parafrasi’ del vero Sudafrica, in cui negli anni Settanta oltre sessantamila persone furono spostate con la forza dal “District 6” di Cape Town, in piena apartheid (che – ricordiamolo – è un crimine internazionale dal ’73). Come allora, nella Johannesburg alternativa targata Blomkamp – in cui il razzismo diviene specismo – ci sono zone per umani e zone per non-umani, delimitate da grotteschi cartelli di divieto. Il contatto tra specie è evitato come la peste e praticato solo da malviventi, nigeriani che comprano dai “gamberoni” armi che non possono usare in cambio di cibo per gatti, quello preferito dagli sgraditi ospiti. È geniale l’idea che vede le armi aliene attivarsi al solo contatto con questi ultimi, così come quella sulla MNU che emargina Van De Merwe accusandolo attraverso i media di aver avuto rapporti sessuali con gli alieni. I riferimenti all’imperversare dell’AIDS sono espliciti: una malattia che è l’arma dei reietti – che hanno pur sempre un nome ed un cognome – e che rende tali. Raggiunto questo status il protagonista capirà cosa significhi essere trattati peggio delle bestie in nome dell’egoismo e del più deteriore capitalismo, finendo per urlare “uomini di merda!”.

CRITICA ***1/2

VISIONE CONSIGLIATA: A


giovedì 17 giugno 2010

Terminator Salvation

Anno 2018: le macchine, dopo aver acquisito l’autocoscienza, hanno scatenato l’Apocalisse nucleare sulla Terra (il “Giorno del Giudizio”) per distruggere l’umanità, ritenuta un nemico. La “Resistenza”, costituita dai pochi sopravvissuti e guidata dal generale Ashdown, è sul punto di sferrare un contrattacco decisivo alla rete mondiale delle macchine (detta “Skynet”), la quale pianifica la definitiva eliminazione di tutti i superstiti tramite nuovi cyborg ‘da infiltrazione’. John Connor, uno dei leader della Resistenza, quasi messianicamente ritenuto colui che sconfiggerà una volta per tutte Skynet, punta a posticipare l’attacco di Ashdown in quanto la morte del suo introvabile padre Kyle Reese – ancora ragazzino – produrrebbe un “aborto retroattivo” (così chiamato nel primo “Terminator”) che lo condannerebbe insieme all’intera umanità: infatti Reese lo concepirà nel 2029, viaggiando nel tempo fino al 1984. Inoltre, a complicare la situazione giunge il misterioso Marcus Wright, che ricorda poco del proprio passato e che non sa nulla della propria natura. Il rapporto che instaurerà con Connor e la Resistenza si dimostrerà proficuo per tutti.
La saga inaugurata nel 1984 dal grande regista d’azione James Cameron (Titanic) viene nuovamente riaperta dopo la maldestra terza puntata (2003) firmata Jonathan Mostow (U-571), che abbandonava la componente ansiogena di T1 e T2 per l’autoparodia, voluta da A. Schwarzenegger alla sua ultima performance. Ora la regia passa a Joseph McGinty Nichol, alias “McG” (Charlie’s Angels), che riesce quasi miracolosamente a ridare serietà alla saga, finalmente ambientata nel futuro tante volte intravisto nelle pellicole precedenti. Purtroppo la sceneggiatura di J. Brancato e M. Ferris appare traballante nello spolpare fino all’osso il paradosso temporale già alla base del primo episodio, ovvero quello sul legame tra John Connor ed il padre: però qui Connor (un Christian Bale sempre all’altezza) non viene protetto, ma protegge. In questo quadro la regia dà largo spazio all’azione mozzafiato – rumorosa, ma mai eccessiva o decerebrata – in cui uomini e macchine si scontrano in scenari alla Mad Max, cioè dominati dalla desolazione e dai rottami. Gli straordinari effetti visivi della ILM di Lucas, combinati alla ‘sporca’ fotografia di S. Hurlbut, quasi da reportage di guerra, trasmettono allo spettatore una sensazione di realismo davvero notevole. Alla qualità della confezione contribuisce anche la coinvolgente colonna sonora di D. Elfman (Spider-Man), che in un memorabile frangente (quello in cui fa capolino uno Schwarzy digitalizzato) ricalca ed omaggia il tema dei titoli di testa del primo episodio (peraltro ‘declinati’ in  grafica 3D in questo film). A dare spessore alla pellicola giunge in soccorso il personaggio di Marcus (il lanciatissimo Sam Worthington), la cui umanità dimezzata nel fisico (è un inedito modello di cyborg) ma non nel cuore (in tutti i sensi) è fonte di speranza circa il futuro. Il suo operato si dimostra necessario per la ‘salvezza’ dell’umanità (quella ‘fisica’) e per la sua “Salvazione” (sì, quella del titolo): solo dopo l’Apocalisse appare evidente quanto le macchine, senza la componente umana – che le genera e che le utilizza – siano inutili mostruosità fini a se stesse. Solo ciò che ci rende umani, come l’amore, l’altruismo, la diplomazia, il buon senso – e non solo – sono i veri motori del mondo. E appare quasi piacevolmente assurdo che sia un cyborg in un blockbuster fantascientifico da duecento milioni di dollari a ricordarcelo.

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: I