domenica 25 marzo 2012

La lezione di vita di Liliana Cavani al Bif&st 2012

Bari, 24 marzo - Multicinema Galleria, Sala 1

Sono quasi le 11.15 e dopo una brevissima premessa di Felice Laudadio – direttore del Bif&st – la parola passa al suo vice Enrico Magrelli, il quale sottolinea quanto il pubblico cinefilo barese sia «competente», augurandosi che si comporti degnamente, magari ponendo domande adeguate: sta infatti iniziando la prima «lezione di cinema» del festival, quella con la nota regista Liliana Cavani.

L’attenzione vien subito rivolta ad una serie di TV movie prodotti da Claudia Mori dal titolo “Mai per amore”, tutti sulla violenze subite dalle donne, che la Rai aveva inaspettatamente ‘congelato’. Ma non appena la produzione è stata sul punto di farli proiettare al Bif&st, ecco che la TV di stato tardivamente ricorda di avere in archivio i film in questione, tutti girati da nomi di spicco (oltre alla Cavani, da Margarethe von Trotta e da Marco Pontecorvo).

La regista di Carpi ha diretto un capitolo a tema stalking e un altro sulla prostituzione. E questo compito l’ha portata a documentarsi presso i Carabinieri e fonti ufficiali. Grande è stato lo stupore, venendo a conoscenza del fatto che in Italia ci sono ben 10 milioni di ‘utenti’ che ben sanno che le prostitute sono schiave sempre controllate, e che la richiesta di minorenni (specialmente di ragazzine sui 14 anni) è elevatissima. Quanto allo stalking, almeno di consolante c’è il fatto che siano state recentemente approvate specifiche leggi che non si risparmiano nel punire i persecutori (i quali rischiano sino a 12 anni di carcere).

Dopo queste riflessioni di taglio sociale, Magrelli dà una svolta alla conversazione – a sua detta è questa la natura dell’evento, più che una “lezione” vera e propria – puntando sul personale, chiedendo: «Come mai sei arrivata al cinema dalla passione per l’antichità?». E l’illustre ospite: «Ho fatto lettere antiche, volevo fare l’archeologa… per influenze paterne». E si è infatti laureata in Lettere classiche nel ’59. Ma a portarla sulla strada asfaltata di celluloide è stata la madre, che le domeniche pomeriggio la portava con sé al cinema, col pretesto che l’avrebbe fatta giocare ai giardinetti. Eppure questa via l’è piaciuta, tanto da aver fondato nella sua città un cineclub – affinché avessero visibilità i titoli di autori stranieri di spicco, come Bergman e Bresson – e vincendo un premio di cinema che diede lustro al suo liceo, in barba al cattolicissimo professore di lettere che era lontano più che mai dalla settima arte.

Il moderatore approfitta del riferimento al cursus studiorum della cineasta, spronandola a ricordare l’espediente che mise in atto per iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, quando coinvolse un amico per girare un film che, per quanto di pessima fattura, le permise comunque di accedere alla scuola.

Ci si ricorda poi dei suoi primi incarichi alla Rai, presso la neonata RaiDue – detta «culturale» – per la quale dovette girare dei documentari sulla seconda guerra mondiale. E nel far ciò ebbe inizialmente dei problemi, dato che «conoscevo di più le Guerre del Peloponneso». E via, di corsa andò a documentarsi per conto proprio.

E dopo aver proclamato che «le guerre dimostrano che l’uomo non impara niente», non si può non dire «qualcosa su Francesco». È dei suoi film sul santo patrono d’Italia che si parla, ovviamente, «figura di transizione dal Medioevo all’Umanesimo». E così si rievoca l’impresa produttiva resa possibile nel ’65 dalla caparbia di Leo Pescarolo, che riuscì a strappare alla Rai 30 milioni di lire, persino scegliendo non un attore italiano ma lo svedese Lou Castel come protagonista, facendo arrabbiare i membri dell’MSI che addirittura con un’interpellanza portarono il loro sdegno in parlamento. Il suo secondo film – Francesco (1989) – l’ha girato «per rifletterci su ancor meglio», e a tutt’oggi è viva la tentazione di farne un altro. Non può non sorgere a riguardo qualche parola su Mickey Rourke, «l’attore più bravo che abbia conosciuto», «pieno di debolezze ma simpatico proprio per questo», purtroppo ‘rovinato’ dall’aver lavorato con Coppola. Di estrema professionalità sul set, ad esempio recitò alla perfezione una battuta che la regista avrebbe voluto tagliare perché troppo lunga, dopo aver studiato e ‘resa sua’ la scena.

E dopo aver tanto spaziato, la prima lezione del festival barese si chiude con le dure parole della Cavani sullo status politico-culturale in cui versa la nostra nazione. L’indice è puntato verso l’intellettualismo borghese che snobba ancor oggi il cinema: «spesso ci sono dibattiti interessantissimi tra studiosi di letteratura che, però, parlano tra di loro, mentre il cinema – che invece ha maggior peso mediatico – viene regolarmente abbandonato». Purtroppo «siamo culturalmente più indietro rispetto a Inghilterra e Francia di almeno 15 anni». Ci sono troppi raccomandati, troppo nepotismo. «Siamo un paese comico» in cui «non ci sono più le dittature: ci pensano i partiti a piazzare persone con zero competenze. Non si riesce a uscire dalla logica che la cultura debba essere gestita dai partiti». La chiusa è in un’amara, tristemente vera affermazione: «in Italia ora non si crede nel cinema». Dopotutto, da quanti anni su RaiUno è sparito – in favore di tante insipide fiction – il “Lunedì film” aperto dalla celebre sigla del compianto Lucio Dalla?

Pubblicato sulla testata Fermenti Divi [http://fermentidivi.it/index.php/visioni/479-de-benedictis]