domenica 29 aprile 2012

Hunger Games

“Distopia”: una parola che non evoca nulla di buono. Chi non ha mai sentito parlare di 1984 di Orwell e di Fahrenheit 451 di Bradbury? Chi vorrebbe vivere in un mondo post-apocalittico in cui i cittadini sono vittime di un regime dittatoriale violento e populista?

Hunger Games è l’ultimo epigono di questo sottogenere letterario e cinematografico. Tratto dal primo, omonimo romanzo della trilogia di Suzanne Collins, è un film destinato ad un target young adult, (per capirci, quello che negli ultimi anni ha riempito le sale con la Twilight Saga e gli ultimi Harry Potter).

Gli Stati Uniti sono divenuti la nazione di Panem, costituita da dodici “distretti” poverissimi – gli abitanti sono tutti operai o artigiani che vivono quasi come mormoni – dominati dalla ricchissima Capitol City, popolata da vacui fricchettoni variopinti. Quest’ultima è la sede del perfido, sibillino presidente Snow (un imbolsito Donald Sutherland), il quale sa che per ‘tenere in vita’ il resto della popolazione basta istillare in essa un po’ di speranza…
La speranza di poter vivere a Capitol è alla base degli “Hunger Games” (lett. “i giochi della fame”), in cui una coppia proveniente da ogni singolo distretto – un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni – detti “tributi”, si scontrano annualmente tra loro in un’arena/regione grande ettari, costellata di telecamere nascoste e coperta da una cupola che simula le condizioni ambientali. Ogni violenza e scorrettezza sono contemplate dal regolamento, ma vi è solo un vincitore (o vincitrice).
Tutto per il divertimento dell’1% ricco e le flebili speranze del 99% povero. Ma non solo: la vera ragione è di origine storica, ovvero ricordare le repressioni delle rivolte che scoppiarono nei distretti 74 anni prima. È per questo che avviene il sacrificio: per ricordare a coloro che non hanno voce in capitolo che è inutile persino pensare di averla. Insomma, la testa va tenuta bassa. Un reality che è spettacolo, punizione e ammonimento allo stesso tempo.
È evidente che oltre ai due titoli prima citati, i riferimenti culturali son tanti, alti e bassi: Battle Royale, Brazil, l’Isola dei famosi, The Truman Show, Rollerball, L’implacabile, il mito di Teseo e il Minotauro… Peraltro, che alla Collins piaccia l’antichità classica è evidente, dato che molti personaggi di Capitol hanno nomi latini: Ceasar, Claudius, Cato, Cinna, Seneca…
In questo primo capitolo della trilogia cinematografica in fieri, cosa accade? Scopriamo che la protagonista è Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence, le cui spalle reggono quasi tutto il film), una sedicenne che si offre volontaria alla “mietitura” al posto della fragile sorellina dodicenne. Insieme a lei viene sorteggiato il mite Peeta (Josh Hutcherson), figlio di panificatori, che in un’occasione passata sfamò la famiglia della ragazza. Entrambi provengono dal poverissimo “Distretto 12”, il quale ha visto solo un vincitore nel corso dei decenni: è Haymitch (Woody Harrelson), che insieme al costumista Cinna (un ottimo Lenny Kravitz) darà consigli ai due su come accattivarsi le simpatie dell’affamato pubblico e su come sopravvivere alle avversità della natura e alle meschinità degli avversari.
Gary Ross (Pleasantville, Seabiscuit) torna dopo quasi un decennio in cabina di regia con questa pellicola che oltreoceano ha sbancato i botteghini, classificandosi al terzo posto degli incassi più alti in assoluto nel weekend d’uscita (dopo Harry Potter e i doni della morte – Parte II e Il cavaliere oscuro). Il che però non è garanzia per lo spettatore di trovarsi dinanzi ad un capolavoro. Se, come detto, la trama ha poco o nulla di nuovo da offrire, dati gli illustri predecessori, come spiegare tale successo? Semplice: come fu per il maghetto di Hogswarth e per i vampirelli in calore, anche qui c’è una solida fanbase di lettori che non potrà non vedere i film. Date tali premesse, la regia è costretta a mostrare pochissimo sangue e far intravedere le scene violente, ricorrendo a cineprese a spalla fin troppo mobili e a un montaggio sincopato. La fotografia del bravo Tom Stern, abituale collaboratore di Eastwood dal 2002, risulta di conseguenza un po’ anonima, così come le musiche di James Newton Howard.
Ma all’attivo il film – anche il franchise, se vogliamo – ha proprio il merito di ripetere questa vecchia lezione a spettatori che probabilmente non hanno presente nemmeno uno dei succitati titoli, avvertendoli sulla brutta strada che da fin troppi anni stanno percorrendo la televisione e la politica. Perché, come diceva Cronenberg in Videodrome, “la televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione”. E anche perché l’espressione panem et circenses, che in realtà si riferiva alla provenienza nordafricana delle bestie da arena e delle scorte di grano, è poi passata a indicare il potere che sfama le masse col panem, e distraendole coi giochi circenses. Non resta che augurarsi che gli Hunger Games riescano a inculcare nelle giovani menti questo messaggio. Perché là dove falliscono la famiglia e l’istruzione, possono farcela i libri e il cinema. Alla faccia della televisione.

CRITICA: **

VISIONE CONSIGLIATA: I

domenica 1 aprile 2012

von Sydow: mai così Max per il pubblico del Bif&st 2012

Bari, 26 marzo - Multicinema Galleria, Sala 1

Dopo la Cavani sabato e la von Trotta domenica, anche ieri mattina la terza lezione di cinema del Bif&st 2012 è stata tenuta da un vero e proprio ‘pezzo da novanta’: Max von Sydow, l’iconico attore svedese, ultraottantenne in invidiabile forma. Dopo una fugace apparizione del direttore del festival Felice Laudadio, intorno alle 11.10 ha avuto inizio la “Master Class”, così ribattezzata dal critico in veste di moderatore Marco Spagnoli. 

La prima domanda che questi gli pone è: «Come mai un solo film?», ispirata dalla proiezione dell’unica pellicola da lui diretta, Katinka (1988). E la risposta è schietta e laconica: «Perché sono un attore!» ed i presenti – appassionati di cinema, giornalisti e studenti – non possono non (sor)ridere. Si rimane in tema per un po’: von Sydow afferma di esser pigro e che per girare un film serve davvero molto tempo. Al che ripercorre la storia della produzione di Katinka, opera tratta dall’omonimo romanzo del danese Herman Bang, la cui lettura «consiglia caldamente». 

Spagnoli porta nel vivo il dibattito, puntando sulla sua biografia, chiedendo: «Quando ha deciso di diventare attore?», ma per l’illustre ospite «non è facile rispondere…», almeno sulle prime. E poi, ecco che rievoca i tempi di quando era un quattordicenne che si fece conquistare da Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, pur provenendo da una famiglia distante dal teatro e dal cinema. E di come a quindici anni mise in piedi un circolo teatrale per combattere «timidezza, solitudine, emarginazione». Ma fu Alf Sjöberg a volerlo inserire nel cast di Only A Mother (1949), dopo averlo apprezzato nella Royal Dramatic Theatre di Stoccolma da lui diretta. 

Da Sjöberg a Bergman il passo è breve. Incalzato dal critico, von Sydow ricorda di quando fu da lui avvistato – e poi reclutato – in occasione di uno spettacolo teatrale in corso a Malmö, nel sud della Sevzia, allestito da una piccola compagnia. Parla quindi della filmografia del maestro svedese: «la sua prima opera non fu rivoluzionaria, ma conteneva già la filosofia dei film successivi, e i direttori della fotografia la compresero». Ne disegna anche un profilo: «Bergman aveva grande immaginazione e senso dell’umorismo. Era più brillante e intelligente di quanto gli altri credessero. Il suo saper leggere l’anima d’acchito spaventava un po’ gli altri. Era un uomo di grande disciplina e voleva silenzio assoluto sul set. Non so dove trovasse tanta energia e tanta forza». 

Spagnoli, incarnando il punto di vista dei cinefili, evidenzia quanto l’interlocutore sia noto nella memoria collettiva come l’uomo che gioca a scacchi con la morte. Scatta quindi la domanda: «Insieme avete scritto alcune delle pagine più importanti della cinematografia internazionale. In quei momenti ne eravate consapevoli?» La risposta è un no secco. Infatti ll settimo sigillo (1957) «era un piccolo film che Bergman voleva girare già da due anni. Era più che altro una serie di monologhi. Al produttore di Stoccolma al quale lo propose parve troppo intellettuale. Solo dopo avergli fatto guadagnare molti soldi a teatro, ebbe il via. Mentre giravamo ci sentivamo presi a sperimentare, non credevamo di fare la storia del cinema». 

Ma, con oltre 140 film all’attivo, von Sydow non ha ovviamente lavorato solo in patria. Racconta di quando conobbe un uomo che si propose come suo agente a Cannes (fino ad allora non aveva mai avuto uno). Il Nostro si trovava bene in Svezia, ma solo da allora iniziò a ricevere proposte dall’estero. E così giunse la chiamata da Hollywood, che lo volle ne La più grande storia mai raccontata (1965) nei panni di Gesù Cristo. Egli rimase impressionato dai mezzi tecnici lì presenti, e pur non gradendo i film biblici si rese conto di esser parte di una produzione seria, le cui riprese durarono ben nove mesi. 

Negli USA von Sydow ha lavorato con tanti famosissimi registi, come Allen, Spielberg, Scott, Friedkin, Milius. Spagnoli indaga chiedendo: «Quali qualità hanno i registi con cui ha lavorato?» e gli risponde con un «li ammiravo da prima, e sono stato onorato di aver partecipato alle loro produzioni». A Hollywood «l’importante è cambiare ruoli. Dopo Cristo mi hanno proposto di esser papa, vescovo, prete, a causa di direttori di casting senza fantasia, ma naturalmente ho rifiutato». 

Inevitabilmente, date le tante parole spese, si considera anche il rapporto tra cinema e teatro. «Preferisco recitare a teatro che al cinema, perché sul set fai ciò che devi e quando non servi più non sai cosa sta succedendo, mentre a teatro si è insieme, si crea, si sente di appartenere a un progetto». 

Insignito solo la sera prima del Premio 81/2 al Teatro Petruzzelli, il Nostro parla del suo ultimo film, Molto forte, incredibilmente vicino di Stephen Daldry (Billy Elliott), con Tom Hanks e Sandra Bullock. In esso egli interpreta un anziano superstite del bombardamento di Dresda del ’45 che si chiude nel mutismo dopo l’11 settembre 2001: questa interpretazione gli è valsa una nomination agli scorsi Oscar (il titolo è andato al coetaneo Cristopher Plummer). «Qui recito in silenzio, cosa che non ho mai fatto prima. La scelta di non far parlare il personaggio è stata discussa in produzione e da me voluta per non rubare spazio alla figura del bambino». Il film di Daldry – che era anche candidato come miglior film - «ha uno script che mi ha commosso, e rivedendolo nelle anteprime nei vari paesi ho constatato le reazioni del pubblico. Purtroppo i distrubutori a Hollywood l’hanno fatto uscireil 1° dicembre per farlo partecipare agli Oscar. Ed ero furioso per il titolo, troppo lungo e difficile da ricordare». A riprova di quanto abbia emozionato gli spettatori, ricorda che una ragazzina che ha perduto il padre l’11 settembre l’ha voluto abbracciare a proiezione finita. 

Con le domande dei presenti si dà infine spazio al mestiere dell’attore: «È molto difficile recitare ed insegnare a recitare, descrivere il recitare. Bisogna solo farlo in continuazione. L’attore, diversamente degli altri artisti – come i pittori – è sia strumento della propria arte che l’opera d’arte stessa, e per questo non può voltarsi per vedere ciò che sta facendo, se non a film finito, almeno in teoria». E su come la sua patria tratti gli attori, dice che «in Svezia ogni artista – non solo l’attore – è tutelato». Ma si ricordano anche i suoi film italiani («Sono grato a Zurlini per Il deserto dei tartari. È stata un’esperienza incredibile. Era un grande esteta del cinema»). 

«Quali consigli dà ai giovani su come entrare nel mondo del cinema?» è l’ultima domanda a levarsi dalle rosse poltrone della Sala 1 del Multicinema Galleria. La ricetta è semplice: «Leggere tanta buona letteratura, imparare a conoscere la natura umana, guardare le interpretazioni dei bravi attori, capire i personaggi che s’impersonano senza necessariamente simpatizzare con essi. Perché recitare è anche un modo per scappare dalle preoccupazioni e dalle delusioni della vita». Nonostante tutto, afferma, «il mio cuore è più vicino al teatro che all’industria cinematografica. Ma forse sono un po’ viziato e non dovrei lamentarmi…».