domenica 1 aprile 2012

von Sydow: mai così Max per il pubblico del Bif&st 2012

Bari, 26 marzo - Multicinema Galleria, Sala 1

Dopo la Cavani sabato e la von Trotta domenica, anche ieri mattina la terza lezione di cinema del Bif&st 2012 è stata tenuta da un vero e proprio ‘pezzo da novanta’: Max von Sydow, l’iconico attore svedese, ultraottantenne in invidiabile forma. Dopo una fugace apparizione del direttore del festival Felice Laudadio, intorno alle 11.10 ha avuto inizio la “Master Class”, così ribattezzata dal critico in veste di moderatore Marco Spagnoli. 

La prima domanda che questi gli pone è: «Come mai un solo film?», ispirata dalla proiezione dell’unica pellicola da lui diretta, Katinka (1988). E la risposta è schietta e laconica: «Perché sono un attore!» ed i presenti – appassionati di cinema, giornalisti e studenti – non possono non (sor)ridere. Si rimane in tema per un po’: von Sydow afferma di esser pigro e che per girare un film serve davvero molto tempo. Al che ripercorre la storia della produzione di Katinka, opera tratta dall’omonimo romanzo del danese Herman Bang, la cui lettura «consiglia caldamente». 

Spagnoli porta nel vivo il dibattito, puntando sulla sua biografia, chiedendo: «Quando ha deciso di diventare attore?», ma per l’illustre ospite «non è facile rispondere…», almeno sulle prime. E poi, ecco che rievoca i tempi di quando era un quattordicenne che si fece conquistare da Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, pur provenendo da una famiglia distante dal teatro e dal cinema. E di come a quindici anni mise in piedi un circolo teatrale per combattere «timidezza, solitudine, emarginazione». Ma fu Alf Sjöberg a volerlo inserire nel cast di Only A Mother (1949), dopo averlo apprezzato nella Royal Dramatic Theatre di Stoccolma da lui diretta. 

Da Sjöberg a Bergman il passo è breve. Incalzato dal critico, von Sydow ricorda di quando fu da lui avvistato – e poi reclutato – in occasione di uno spettacolo teatrale in corso a Malmö, nel sud della Sevzia, allestito da una piccola compagnia. Parla quindi della filmografia del maestro svedese: «la sua prima opera non fu rivoluzionaria, ma conteneva già la filosofia dei film successivi, e i direttori della fotografia la compresero». Ne disegna anche un profilo: «Bergman aveva grande immaginazione e senso dell’umorismo. Era più brillante e intelligente di quanto gli altri credessero. Il suo saper leggere l’anima d’acchito spaventava un po’ gli altri. Era un uomo di grande disciplina e voleva silenzio assoluto sul set. Non so dove trovasse tanta energia e tanta forza». 

Spagnoli, incarnando il punto di vista dei cinefili, evidenzia quanto l’interlocutore sia noto nella memoria collettiva come l’uomo che gioca a scacchi con la morte. Scatta quindi la domanda: «Insieme avete scritto alcune delle pagine più importanti della cinematografia internazionale. In quei momenti ne eravate consapevoli?» La risposta è un no secco. Infatti ll settimo sigillo (1957) «era un piccolo film che Bergman voleva girare già da due anni. Era più che altro una serie di monologhi. Al produttore di Stoccolma al quale lo propose parve troppo intellettuale. Solo dopo avergli fatto guadagnare molti soldi a teatro, ebbe il via. Mentre giravamo ci sentivamo presi a sperimentare, non credevamo di fare la storia del cinema». 

Ma, con oltre 140 film all’attivo, von Sydow non ha ovviamente lavorato solo in patria. Racconta di quando conobbe un uomo che si propose come suo agente a Cannes (fino ad allora non aveva mai avuto uno). Il Nostro si trovava bene in Svezia, ma solo da allora iniziò a ricevere proposte dall’estero. E così giunse la chiamata da Hollywood, che lo volle ne La più grande storia mai raccontata (1965) nei panni di Gesù Cristo. Egli rimase impressionato dai mezzi tecnici lì presenti, e pur non gradendo i film biblici si rese conto di esser parte di una produzione seria, le cui riprese durarono ben nove mesi. 

Negli USA von Sydow ha lavorato con tanti famosissimi registi, come Allen, Spielberg, Scott, Friedkin, Milius. Spagnoli indaga chiedendo: «Quali qualità hanno i registi con cui ha lavorato?» e gli risponde con un «li ammiravo da prima, e sono stato onorato di aver partecipato alle loro produzioni». A Hollywood «l’importante è cambiare ruoli. Dopo Cristo mi hanno proposto di esser papa, vescovo, prete, a causa di direttori di casting senza fantasia, ma naturalmente ho rifiutato». 

Inevitabilmente, date le tante parole spese, si considera anche il rapporto tra cinema e teatro. «Preferisco recitare a teatro che al cinema, perché sul set fai ciò che devi e quando non servi più non sai cosa sta succedendo, mentre a teatro si è insieme, si crea, si sente di appartenere a un progetto». 

Insignito solo la sera prima del Premio 81/2 al Teatro Petruzzelli, il Nostro parla del suo ultimo film, Molto forte, incredibilmente vicino di Stephen Daldry (Billy Elliott), con Tom Hanks e Sandra Bullock. In esso egli interpreta un anziano superstite del bombardamento di Dresda del ’45 che si chiude nel mutismo dopo l’11 settembre 2001: questa interpretazione gli è valsa una nomination agli scorsi Oscar (il titolo è andato al coetaneo Cristopher Plummer). «Qui recito in silenzio, cosa che non ho mai fatto prima. La scelta di non far parlare il personaggio è stata discussa in produzione e da me voluta per non rubare spazio alla figura del bambino». Il film di Daldry – che era anche candidato come miglior film - «ha uno script che mi ha commosso, e rivedendolo nelle anteprime nei vari paesi ho constatato le reazioni del pubblico. Purtroppo i distrubutori a Hollywood l’hanno fatto uscireil 1° dicembre per farlo partecipare agli Oscar. Ed ero furioso per il titolo, troppo lungo e difficile da ricordare». A riprova di quanto abbia emozionato gli spettatori, ricorda che una ragazzina che ha perduto il padre l’11 settembre l’ha voluto abbracciare a proiezione finita. 

Con le domande dei presenti si dà infine spazio al mestiere dell’attore: «È molto difficile recitare ed insegnare a recitare, descrivere il recitare. Bisogna solo farlo in continuazione. L’attore, diversamente degli altri artisti – come i pittori – è sia strumento della propria arte che l’opera d’arte stessa, e per questo non può voltarsi per vedere ciò che sta facendo, se non a film finito, almeno in teoria». E su come la sua patria tratti gli attori, dice che «in Svezia ogni artista – non solo l’attore – è tutelato». Ma si ricordano anche i suoi film italiani («Sono grato a Zurlini per Il deserto dei tartari. È stata un’esperienza incredibile. Era un grande esteta del cinema»). 

«Quali consigli dà ai giovani su come entrare nel mondo del cinema?» è l’ultima domanda a levarsi dalle rosse poltrone della Sala 1 del Multicinema Galleria. La ricetta è semplice: «Leggere tanta buona letteratura, imparare a conoscere la natura umana, guardare le interpretazioni dei bravi attori, capire i personaggi che s’impersonano senza necessariamente simpatizzare con essi. Perché recitare è anche un modo per scappare dalle preoccupazioni e dalle delusioni della vita». Nonostante tutto, afferma, «il mio cuore è più vicino al teatro che all’industria cinematografica. Ma forse sono un po’ viziato e non dovrei lamentarmi…».

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