sabato 1 giugno 2013

Il grande Gatsby


A Baz Luhrmann il Moulin Rouge manca, manca da morire. E ciò nel suo Grande Gatsby, quarta trasposizione filmica del capolavoro (1925) di Francis Scott Fitzgerald, si vede. Son passati dodici anni dal musical che presentò a Cannes, consacrandolo regista visionario ed eccessivo, vessillifero del kitsch con un'anima. Ma c'è un passaggio del libro che suonava come un consiglio, rimasto purtroppo inascoltato: "non si può ripetere il passato". E infatti il risultato è un film riuscito a metà. Di nuovo sulla croisette, stavolta la critica l'ha accolto gelidamente.
La prima parte, che scuoterebbe dal torpore anche lo spettatore più addormentato, ha un montaggio frenetico, affilato, e una colonna sonora dance/hip-hop in sintonia - a suo dire - col cuore pulsante della New York dei ruggenti anni Venti. La villa-castello di Gatsby sembra il locale parigino, animato da continue feste rutilanti, popolate da centinaia di avventori in mise elegantissime e scintillanti (è notevole il lavoro della costumista e scenografa Catherine Martin). Pacchiana e travolgente - anche grazie a riprese al ralenti e a carrellate digitali - è la parte migliore del film.
Poi la narrazione vira verso il drammone sentimentale, con l'acuirsi della non-storia d'amore che il bravo protagonista Gatsby/DiCaprio ha con la "indifferente" Daisy, interpretata da Carey Mulligan, sempre a suo agio con personaggi lagnosetti. E anche la potenza della fotografia di Simon Duggan, accentuata dal 3D, scema.
Il tutto è visto dagli occhi dell'ottimo Tobey Maguire, uno che sa davvero dire tutto con lo sguardo, voce narrante del romanzo e del film. Qui la sceneggiatura - firmata dal regista e da Craig Pearce - addirittura lo inserisce in una cornice (in cui è in una clinica psichiatrica come la moglie di Fitzgerald, Zelda) a metter nero su bianco la vicenda passata. Proprio come nel suddetto musical che firmò nel 2001. Ma puntando tutto sulla tragica relazione amorosa, Luhrmann riduce di gran lunga il respiro della storia e dei tanti significati di cui si carica (critica sociale in primis), de facto oscurando la vera natura che ha la luce verde verso la quale si protende titanicamente Gatsby: quella di emblema del sogno americano, un sogno al quale il protagonista aspira invano, un "futuro orgiastico" irraggiungibile che lo "risospinge senza posa nel passato".
Prodotta da Jay-Z, la bella colonna sonora di Craig Armstrong s'interseca con brani che spaziano da Gotye, Lana Del Rey, Emeli Sande e Jack White a Fergie, will.i.am, Beyoncé e Florence + the Machine. E' uno dei punti di forza di questo Gatsby coloratissimo e talvolta ipnotico, ma non proprio "grande".

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: T

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