lunedì 2 luglio 2012

St. Elmo’s Fire


Mai sentito parlare del "fuoco di Sant’Elmo"? È quel fenomeno fisico – un tempo ben noto ai navigatori – che si manifesta quando si scatena un temporale in mare aperto, costituito da scariche elettriche e da bagliori luminescenti, avvistati in cima agli alberi maestri. È così che si chiama il terzo lungometraggio (1985) diretto da Joel Schumacher, noto ai più come colui che ha fatto sprofondare nella più chiassosa cialtroneria il franchise di Batman dopo i due capitoli firmati Tim Burton. St. Elmo’s Fire è anche il nome del locale in cui s’incontrano abitualmente i sette personaggi di questa commedia drammatica generazionale, che pare – ma non lo è – una versione più scanzonata de Il grande freddo (1983) di Lawrence Kasdan. La grossa differenza tra i due titoli è che nel primo si fa un bilancio sulla giovinezza ormai passata: lì i sette sono dei sessantottini delusi, ormai quarantenni, mentre qui abbiamo dei ragazzi poco più che ventenni, appena laureatisi alla Georgetown University di Washington DC, tutti proiettati verso il futuro.
C’è Billy (Rob Lowe), scavezzacollo sposato, che suona il sassofono e vive alla giornata; Wendy (Mare Winningham), paffuta e ingessata verginella dell’alta società che non riesce a 'sistemarsi'; Kevin (Andrew McCarthy), aspirante giornalista che vorrebbe dedicarsi a scritture profonde ma che per sopravvivere compone necrologi; Jules (Demi Moore), la sciroccata del gruppo, drogata, zoccola e festaiola, impiegata in una grossa banca d’affari; Alec (Judd Nelson) yuppie democratico che per gonfiare ancor di più il portafogli non esita a cambiare partito; Leslie (Ally Sheedy), architetto, storica fidanzata di Alec, che dubita della stabilità della propria relazione; Kirbo (Emilio Estevez), laureato in legge che studia per diventare avvocato ma che si mantiene come cameriere, vanamente innamorato da una vita della fresca dottoressa Dale (Andie MacDowell). Con così tanti personaggi, è meglio non aspettarsi una trama forte, la quale avrebbe finito per imbrigliare le tante linee narrative. Il film si fa apprezzare per l’affiatamento del cast, così come per la spigliatezza e la sincerità dei dialoghi, ora cinici, ora malinconici (ad esempio: "L'amore è un’illusione creata dai tipi, avvocati come te, per eternare un’altra illusione, il matrimonio, per creare la realtà del divorzio e degli avvocati divorzisti!"). Su tutta la pellicola aleggia la sensazione che ormai la spensierata giovinezza sia finita, che i tempi passati si possano solo rimpiangere e mai più rivivere. Per un prodotto hollywoodiano dell’epoca, così a metà strada tra disillusione e rampantismo, non è poco. Sceneggiatura del regista e di Carl Kurlander, fotografia in Metrocolor (2,35:1) di Stephen H. Burum; colonna sonora di David Foster col noto brano Man In Motion di John Parr. Piccola parte per Martin Balsam nei panni del padre di Wendy. Per via di questo titolo e di Breakfast Club (1985) di John Hughes, il folto cast venne etichettato come "Brat Pack" ("banda di monelli") da David Blum in un articolo sul settimanale New York, rivisitazione leggermente dispregiativa del "Rat Pack" capeggiato da Frank Sinatra decenni prima. Quest’etichetta non piacque molto ai giovani attori (Estevez disse al giornalista "Mi hai rovinato la vita"), molti dei quali – vedi McCarthy (Weekend con il morto, Bella in rosa, Only You) – ebbero successo solo negli Eighties.
St. Elmo’s Fire ebbe un clamoroso successo negli USA, ove è tuttora un film di culto.

CRITICA: ***

VISIONE CONSIGLIATA: I

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