mercoledì 18 luglio 2012

The Amazing Spider-Man


Com’è noto, Spider-Man 4 venne meno. Il cast era pronto, e una (terribile) sceneggiatura pure, ma alla fine il regista Raimi disse di no alla Sony-Columbia. Le motivazioni: divergenze creative e una data d’uscita troppo ravvicinata. "E ora che si fa? Si seppellisce uno dei supereroi più amati di sempre?" si saranno detti i produttori. Ovviamente no. Si optò per un reboot (riavvio) della saga ragnesca, la cui sceneggiatura era già stata scritta (un "piano B" vero e proprio) da James Vanderbilt, autore di quella di Zodiac, apprezzato thriller di David Fincher.
E così riecco Peter Parker (Andrew Garfield) liceale impopolare, studente fin troppo brillante ma scarso nel gestire le relazioni coi coetanei. Nonostante ciò, lo vediamo far colpo sulla bella Gwen Stacy (Emma Stone), degna compagna di scuola e di vita, figlia del burbero Capitano Stacy della Polizia di New York. Quest’ultimo vorrebbe arrestare l’alter ego di Peter – Spider-Man – ritenuto un "vigilante in tuta aderente", che come da copione è nato grazie alla puntura di un ragno modificato in laboratorio. Laboratorio nel quale lavora il dottor Curtis Connors (Rhys Ifans), collega del defunto padre del protagonista, che punta alla rigenerazione di parti del corpo (essendo egli stesso privo del braccio destro): una provvidenziale collaborazione con Peter lo aiuterà a trovare la formula apparentemente giusta, la quale – complici le pressioni delle Oscorp Industries per cui lavora – testata frettolosamente su se stesso, lo trasformerà nel gigantesco e violento rettile Lizard.
Marc Webb – il cui nome non può non far venire in mente una ragnatela ("web") – s’è dovuto accollare il gravoso incarico di rinarrare le origini dell’Uomo Ragno, avendo all’attivo una sola pellicola 500 giorni insieme (2009), riuscita commedia sentimentale agrodolce. E il suo tocco lo si apprezza nelle sequenze domestiche e in quelle con Peter e Gwen. Però lo script di Vanderbilt, Sargent e Kloves, per quanto gradito a svariati fan del fumetto per la fedeltà soprattutto nei confronti della versione Ultimate dell’eroe (più cinica e contemporanea), presenta però dei ‘tradimenti’ che pesano non poco: Peter è qui un outsider maniaco della fotografia ma non propriamente un nerd sfigato come tradizione vorrebbe (a testimoniarlo ne vengono inquadrati due mentre discutono dei poteri ragneschi in termini scientifici); porta le lenti a contatto e se le toglie in cambio degli occhiali del defunto padre; addirittura va in giro con lo skateboard ascoltando musica dal lettore Mp3… Insomma, per quanto sia stato bravo Garfield nel calarsi nel personaggio, dobbiamo constatare che questo non è il protagonista che ci saremmo aspettati. Le cose vanno meglio se si considera l’alter ego mascherato, forse più linguacciuto e scavezzacollo di quello interpretato da Maguire, qui aiutato da una grafica computerizzata inevitabilmente superiore, credibile nel riproporre le plastiche pose viste sul fumetto. Quanto al resto del cast nulla da ridire, eccetto per Ifans, costretto a calarsi nei panni di uno scienziato che diviene villain psicotico per cause di forza maggiore, proprio come il Dafoe dello Spider-Man raimiano, trasformazione però qui davvero repentina. A ben guardare, infatti, l’intera sceneggiatura soffre di una sorta di ‘complesso d’inferiorità’, sapendo di nascere all’ombra di un film campione d’incassi di soli dieci anni addietro, e per questo comprime o supera alcuni momenti topici del prototipo per espanderne altri: il risultato è che si perde del tutto per strada quel sense of wonder che tanto si confà alla genesi del personaggio. Qui Peter non si entusiasma per la scoperta dei propri poteri, subito li accetta e li sfrutta quasi come se niente fosse (al suo primo giro col lancia-ragnatele se la cava fin troppo bene), e ciò lo rende meno affascinante e simpatico agli occhi dello spettatore. A tutti questi discutibili elementi, si aggiunge una versione parafrasata della frase chiave “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”, pronunciata da uno Zio Ben, la cui morte non ha il peso che dovrebbe avere. Circa la confezione, le musiche di James Horner non sono affatto male; il montaggio di A.E. Bell e Pietro Scalia fa il suo dovere nonostante i numerosi tagli in extremis imposti dalla produzione, i quali hanno reso il tono del film ancor più dark, sfumando e quasi annullando la sottotrama lanciata dai trailer – sulla rivelazione dei “segreti più grandi di Spider-Man”, qui solo accennati. Notevoli le scenografie di J. Michael Riva, scomparso prematuramente, purtroppo affogate dalla fin troppo scura fotografia di John Schwartzman. Riuscito il cammeo di Stan Lee, qui professore di musica della Midtown High School.
In definitiva, un film che funziona nonostante tutto e che può far presa sui fan dell'ultima ora, ma che manca della magia e dello stile dei capitoli firmati Raimi, belli e infedeli al punto giusto. L’intenzione, com’è evidente, era quella di fare nei confronti del tessiragnatele ciò che è stato fatto per Batman: solo che in quel caso, dopo i due capitoli pop di Burton, erano sopraggiunte le due baracconate targate Schumacher, sgradite a tutti. La serietà della recente trilogia di Nolan, iniziata nel 2005, era stata salutata da frequentatori di sale e da addetti ai lavori come un toccasana, capace di ridare all’Uomo Pipistrello i toni e le atmosfere più adatte. Ma questo Spidey è troppo prosaico e oscuro: da quando, nel fumetto, lo conosciamo così? Ciò non è affatto amazing.

CRITICA: **

VISIONE CONSIGLIATA: I

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