lunedì 17 dicembre 2012

Locandine fasulle: Silvio Balboa


Rocky Balboa, l'iconico pugile impersonato da Stallone, diventa Silvio Balboa. Nella locandina la celebre gradinata di Philadelphia pare essersi trasferita a Milano, con l'antennona di Mediaset visibile in lontananza. La crapa con chierica in primo piano è, ovviamente, quella di Berlusconi, il quale lotta - purtroppo - senza mollar mai, come cita la frase di lancio (che è rimasta la stessa: "non è finita finché non è finita").

mercoledì 31 ottobre 2012

BuonCinema ha compiuto 5 anni!

Sembra ieri, eppure son passati ben cinque anni dalla nascita di questo umile blog di cinema. Era la fine di settembre 2007 quando pensavo a come battezzarlo: da studente di Lettere qual ero (ora due volte laureato) ci tenevo a dargli un nome in italiano!

Probabilmente uno in inglese sarebbe stato più accattivante, avrebbe portato anche più visite - magari di visitatori anglofoni in cerca di recensioni nella loro lingua - ma ho preferito chiamarlo BuonCinema (proprio così, tutto attaccato e con la "C" maiuscola), come se qualcuno dicesse "Buongiorno!" spinto da un certo ottimismo, legato soprattutto alla mia volontà di recensire film degni di essere guardati almeno una volta.

Chiunque abbia confidenza col mondo della settima arte, e che scriva qualcosa a riguardo, sa benissimo quanto possa esser divertente analizzare - o, come spesso capita - massacrare un brutto, bruttissimo film (e ce ne sono tanti). Ed è parimenti divertente - se non di più - leggere tali recensioni. Per questo il blog prende in considerazione sostanzialmente opere che siano quanto meno decenti: di spazio per i film scadenti ce n'è poco.

Così il 6 ottobre 2007 aprii BuonCinema su Splinder, all'epoca la piattaforma italiana più popolata e trafficata, ormai defunta (insieme a tantissimi blog da essa ospitati e non trasferiti altrove dai rispettivi autori). Il giorno stesso iniziai a pubblicare - o a postare, come (purtroppo) si dice - delle brevissime recensioni che avevo già scritto tempo prima, insieme ad altre appena composte. E il giorno stesso già apparvero, quasi magicamente, dei commenti.

Ben presto mi diedi da fare per migliorare il blog, effettuando ricerche per modificare e arricchire il template con svariati widget e i giusti metadati (che tanto bene fanno al numero visite). Allo stesso tempo scrivevo altre recensioni e aggiungevo contatti su contatti, cercandoli tra quelli che orbitavano intorno ai blog cinefili. In breve tempo capii come il tutto funzionava. Ed era bello vedere quanta vita ci fosse in Splinderopoli.

Poi ci fu il boom di Facebook nell'autunno del 2008, e il vento cambiò direzione - per non cambiarla mai più. Anzi, quel vento soffiò sempre più forte, tanto che la piattaforma fu costretta a chiudere, cosa avvenuta il 31 gennaio 2012, dopo alcuni anni di agonia. Qualcosa di simile pare proprio stia accadendo a MSN: un tempo era facile sentire tra amici un "ci vediamo su Messenger". Ora lì c'è il deserto. C'è chi lo apre solo per controllare la posta (e potrebbe pure evitare di passare di lì).

Portare il mio vecchio BuonCinema su Blogger è stata la mossa giusta per farlo continuare a vivere e farlo rinascere contemporaneamente. Se non fosse che tantissimi post sono ancora in attesa di migrare dal file contenente tutto il vecchio blog (in formato xml) al blog vero e proprio, BuonCinema sarebbe ora fruibile al cento percento. Ma con un po' di pazienza e con qualche widget adeguato e funzionante, spero di compiere anche quest'ultimo passo decisivo.

Intanto posso dire che è bello essere ancora qui. Prometto che annaffierò la mia piantina digitale - perché questa è la natura dei blog - con più frequenza. Col fatto che ora che ha un dominio tutto suo, poi, c'è più gusto...

mercoledì 10 ottobre 2012

The Last Days Of Disco


Il titolo è la parafrasi di quello di un film altrettanto – se non di più – famoso, ovvero Gli ultimi giorni di Pompei, girato nel 1908 e rifatto ben 5 volte. La storia è anch’essa quella di un crollo, ma non di una città, bensì di un locale e della musica che in esso risuonava ad alto volume. E degli ideali (o presunti tali) di chi ballava sulle sue note. Stiamo parlando del club newyorkese Studio 54 di Steve Rubell, e della disco music, che ebbe ampio ma effimero successo. Ci troviamo "nei primissimi anni Ottanta", presumibilmente tra il settembre 1980 e la primavera dell’anno seguente, come si evince dagli eventi narrati. Protagonista di quest’affresco è Alice Kinnon (Chloe Sevigny), consulente in una casa editrice dall’indole fin troppo pacifica, sottomessa dall’amica-per-forza e collega Charlotte (Kate Beckinsale), con la quale coabita. Entrambe fresche laureate all’Hampshire College, frequentano il locale insieme a un amico frustrato per dimenticare la grigia quotidianità (come il Tony Manero de La febbre del sabato sera), e per inserirsi nella "New York bene", magari acciuffando qualche giovane yuppie. Di conseguenza, in questa crudele gara sociale, le personalità sono portate a scontrarsi anche più del necessario, in un continuo tripudio d’invidie e incomprensioni. Ma, come tutte le gare, ha un inizio e una fine, che coincide con quella dell’effimero fenomeno musicale e che forse – ma non per tutti – è anche l’inizio di una vita adulta e responsabile. Rubell (qui ribattezzato Bernie) venne arrestato dalla narcotici, e sulle note di Dolce Vita di Ryan Paris un’era, improvvisamente, finì.
Con questo affresco riuscito a metà, il regista e sceneggiatore Whit Stillman (classe 1952) chiude la personale "trilogia sull’alta borghesia urbana" iniziata con Metropolitan (1990) e proseguita con Barcelona (1994). È un peccato che la regia non sia dinamica come la musica che impreziosisce la pellicola: la narrazione parte bene, ma complessivamente si dimostra troppo orizzontale, quasi appiattendosi per essere al livello dei poco amabili personaggi che ritrae. Le uniche figure per le quali si può provare un minimo di simpatia sono quelle che nel finale difenderanno lo spirito della disco pur essendo a bordo della metropolitana, dando il via a dei titoli di coda quasi bollywoodiani. La sceneggiatura pecca di evidente verbosità, e alcuni dialoghi suonano fin troppo didascalici. E l’esile trama pare avere la stessa scarsa consistenza di ciò che descrive. Perché è questo il grande limite di The Last Days Of Disco: descrivere a grandi tratti, invece di raccontare o spiegare ciò che è stato. Lo spettatore del 1998 – anno della sua uscita – e degli anni a venire che non sappia cosa sia stato il movimento americano anti-disco ("Disco Sucks!"), e perché quindi alcuni personaggi si evitino o scontrino per colpa degli abiti che indossano o del mestiere che fanno, qui non troverà risposte. C’è sono spazio solo per una rievocazione nostalgica ma, in fin dei conti, sfocata.
Uscito nelle sale americane nel maggio 1998, tre mesi prima di Studio 54 di Mark Cristopher, fu distribuito in poche copie VHS e DVD nel ’99. Irreperibile quasi per un decennio, solo nel 2009 tornò in vendita grazie alla Criterion, che l’ha restaurato (con l’approvazione del regista) e aggiunto alla propria rinomata Collection, arricchendolo di svariati extra e di una copertina opera dell’artista francese Pierre Le-Tan. Dal 2012 è stato pubblicato anche in Blu-Ray.
PS Lo Studio 54, così chiamato in quanto ex teatro di posa televisivo nella 54esima strada di Manhattan, aprì nel 1977 e chiuse nel 1986. Poi riaprì come teatro, funzione che ha tutt’oggi. Però quando non ci sono rappresentazioni in corso, il secondo piano continua a esser utilizzato come nightclub sotto il nome di Upstairs at Studio 54.


CRITICA: **

VISIONE CONSIGLIATA: I

Locandina del giorno: Not Fade Away

martedì 28 agosto 2012

Film in sala: Agosto 2012

Poche le uscite nel mese di Agosto, che in Italia continua a essere accuratamente evitato dai distributori, al contrario di quel che avviene negli States.

Il primo del mese è uscito solamente Damsels in Distress - Ragazze allo sbando, commedia al femminile con venature satiriche, tutte rivolte alla società americana.

Il 3 Agosto è stato il turno di: Diario di una schiappa: Vita da cani, terzo capitolo sulle disavventure – stavolta estive e non scolastiche – del giovanissimo Greg Heffley; Una famiglia all'improvviso, drammatico in cui un ragazzo scopre, alla morte del padre, di avere una sorella alcolizzata e indebitata con figlio a carico; La congiura della pietra nera, classico cappa e spada orientale diretto a quattro mani (uno dei registi è John Woo); Dream House, thriller orrorifico con l’accoppiata Craig-Weisz e diretto da Jim Sheridan.

Il 10 è il giorno di Nudi e felici, spensierata commedia con Rudd e la Aniston, coppia che dalla grigia vita metropolitana passa senza volerlo a quella hippy.

Il 17 esce uno dei tre pezzi da novanta del mese: I mercenari 2, stavolta diretto da Simon West (Con Air) e non più da Stallone, con un cast – se possibile – ancor più folto. Ad affiancarlo, la commedia giovanilistica romantica LOL – Pazza del mio migliore amico, con Miley Cyrus e Demi Moore.

Il secondo film che punta a grossi incassi è il terzo capitolo della nota saga animalesca animata della Dreamworks, ovvero Madascar 3 – Ricercati in Europa, che arriva il 22.

Due giorni dopo tocca al thriller italiano Tutti i rumori del mare, su un oscuro corriere che trasporta oggetti e persone, bloccato quando si trova alle prese con la donna sbagliata da ‘consegnare’. Il 27 esce un’altra pellicola nostrana, La patente, che vede due trentenni spiantati improvvisamente posti a gestire una scuola guida, e ciò li metterà a contatto con un’umanità alquanto assortita…

Il 29 si chiude una delle saghe di maggior successo – sia di pubblico che di critica – degli ultimi anni, con Il cavaliere oscuro – Il ritorno, sempre diretto da Nolan. Otto anni dopo gli eventi del secondo capitolo, Batman (Christian Bale) dovrà vedersela col forzuto Bane (Tom Hardy), nemico che sulla scia del Joker getterà nel caos Gotham e ridurrà il nostro eroe allo stremo delle forze.

Titolo che condivide la stessa data di release è l’albanese La faida, che dopo l’anteprima al barese Bif&st 2012 di Marzo, è ora fruibile su scala nazionale.

Cinque le pellicole che saranno proiettate dal 31 Agosto: il cupo thriller norvegese Babycall, con Noomi Rapace, incentrato sull’omicidio di un bambino; il dramma argentino El campo, che vede due sposi a disagio nella nuova zona che li ospita; la commedia drammatica francese Monsieur Lazhar, su un’insegnante che ne rimpiazza uno appena deceduto; il fantascientifico ispano-francese Eva, sulla prima bambina-robot, che nasce nel 2041; e infine Womb – cioè “grembo” – con una Eva Green che fa clonare un suo amico appena deceduto, accogliendolo nel suo utero affinché possa rinascere.

mercoledì 18 luglio 2012

The Amazing Spider-Man


Com’è noto, Spider-Man 4 venne meno. Il cast era pronto, e una (terribile) sceneggiatura pure, ma alla fine il regista Raimi disse di no alla Sony-Columbia. Le motivazioni: divergenze creative e una data d’uscita troppo ravvicinata. "E ora che si fa? Si seppellisce uno dei supereroi più amati di sempre?" si saranno detti i produttori. Ovviamente no. Si optò per un reboot (riavvio) della saga ragnesca, la cui sceneggiatura era già stata scritta (un "piano B" vero e proprio) da James Vanderbilt, autore di quella di Zodiac, apprezzato thriller di David Fincher.
E così riecco Peter Parker (Andrew Garfield) liceale impopolare, studente fin troppo brillante ma scarso nel gestire le relazioni coi coetanei. Nonostante ciò, lo vediamo far colpo sulla bella Gwen Stacy (Emma Stone), degna compagna di scuola e di vita, figlia del burbero Capitano Stacy della Polizia di New York. Quest’ultimo vorrebbe arrestare l’alter ego di Peter – Spider-Man – ritenuto un "vigilante in tuta aderente", che come da copione è nato grazie alla puntura di un ragno modificato in laboratorio. Laboratorio nel quale lavora il dottor Curtis Connors (Rhys Ifans), collega del defunto padre del protagonista, che punta alla rigenerazione di parti del corpo (essendo egli stesso privo del braccio destro): una provvidenziale collaborazione con Peter lo aiuterà a trovare la formula apparentemente giusta, la quale – complici le pressioni delle Oscorp Industries per cui lavora – testata frettolosamente su se stesso, lo trasformerà nel gigantesco e violento rettile Lizard.
Marc Webb – il cui nome non può non far venire in mente una ragnatela ("web") – s’è dovuto accollare il gravoso incarico di rinarrare le origini dell’Uomo Ragno, avendo all’attivo una sola pellicola 500 giorni insieme (2009), riuscita commedia sentimentale agrodolce. E il suo tocco lo si apprezza nelle sequenze domestiche e in quelle con Peter e Gwen. Però lo script di Vanderbilt, Sargent e Kloves, per quanto gradito a svariati fan del fumetto per la fedeltà soprattutto nei confronti della versione Ultimate dell’eroe (più cinica e contemporanea), presenta però dei ‘tradimenti’ che pesano non poco: Peter è qui un outsider maniaco della fotografia ma non propriamente un nerd sfigato come tradizione vorrebbe (a testimoniarlo ne vengono inquadrati due mentre discutono dei poteri ragneschi in termini scientifici); porta le lenti a contatto e se le toglie in cambio degli occhiali del defunto padre; addirittura va in giro con lo skateboard ascoltando musica dal lettore Mp3… Insomma, per quanto sia stato bravo Garfield nel calarsi nel personaggio, dobbiamo constatare che questo non è il protagonista che ci saremmo aspettati. Le cose vanno meglio se si considera l’alter ego mascherato, forse più linguacciuto e scavezzacollo di quello interpretato da Maguire, qui aiutato da una grafica computerizzata inevitabilmente superiore, credibile nel riproporre le plastiche pose viste sul fumetto. Quanto al resto del cast nulla da ridire, eccetto per Ifans, costretto a calarsi nei panni di uno scienziato che diviene villain psicotico per cause di forza maggiore, proprio come il Dafoe dello Spider-Man raimiano, trasformazione però qui davvero repentina. A ben guardare, infatti, l’intera sceneggiatura soffre di una sorta di ‘complesso d’inferiorità’, sapendo di nascere all’ombra di un film campione d’incassi di soli dieci anni addietro, e per questo comprime o supera alcuni momenti topici del prototipo per espanderne altri: il risultato è che si perde del tutto per strada quel sense of wonder che tanto si confà alla genesi del personaggio. Qui Peter non si entusiasma per la scoperta dei propri poteri, subito li accetta e li sfrutta quasi come se niente fosse (al suo primo giro col lancia-ragnatele se la cava fin troppo bene), e ciò lo rende meno affascinante e simpatico agli occhi dello spettatore. A tutti questi discutibili elementi, si aggiunge una versione parafrasata della frase chiave “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”, pronunciata da uno Zio Ben, la cui morte non ha il peso che dovrebbe avere. Circa la confezione, le musiche di James Horner non sono affatto male; il montaggio di A.E. Bell e Pietro Scalia fa il suo dovere nonostante i numerosi tagli in extremis imposti dalla produzione, i quali hanno reso il tono del film ancor più dark, sfumando e quasi annullando la sottotrama lanciata dai trailer – sulla rivelazione dei “segreti più grandi di Spider-Man”, qui solo accennati. Notevoli le scenografie di J. Michael Riva, scomparso prematuramente, purtroppo affogate dalla fin troppo scura fotografia di John Schwartzman. Riuscito il cammeo di Stan Lee, qui professore di musica della Midtown High School.
In definitiva, un film che funziona nonostante tutto e che può far presa sui fan dell'ultima ora, ma che manca della magia e dello stile dei capitoli firmati Raimi, belli e infedeli al punto giusto. L’intenzione, com’è evidente, era quella di fare nei confronti del tessiragnatele ciò che è stato fatto per Batman: solo che in quel caso, dopo i due capitoli pop di Burton, erano sopraggiunte le due baracconate targate Schumacher, sgradite a tutti. La serietà della recente trilogia di Nolan, iniziata nel 2005, era stata salutata da frequentatori di sale e da addetti ai lavori come un toccasana, capace di ridare all’Uomo Pipistrello i toni e le atmosfere più adatte. Ma questo Spidey è troppo prosaico e oscuro: da quando, nel fumetto, lo conosciamo così? Ciò non è affatto amazing.

CRITICA: **

VISIONE CONSIGLIATA: I

lunedì 2 luglio 2012

St. Elmo’s Fire


Mai sentito parlare del "fuoco di Sant’Elmo"? È quel fenomeno fisico – un tempo ben noto ai navigatori – che si manifesta quando si scatena un temporale in mare aperto, costituito da scariche elettriche e da bagliori luminescenti, avvistati in cima agli alberi maestri. È così che si chiama il terzo lungometraggio (1985) diretto da Joel Schumacher, noto ai più come colui che ha fatto sprofondare nella più chiassosa cialtroneria il franchise di Batman dopo i due capitoli firmati Tim Burton. St. Elmo’s Fire è anche il nome del locale in cui s’incontrano abitualmente i sette personaggi di questa commedia drammatica generazionale, che pare – ma non lo è – una versione più scanzonata de Il grande freddo (1983) di Lawrence Kasdan. La grossa differenza tra i due titoli è che nel primo si fa un bilancio sulla giovinezza ormai passata: lì i sette sono dei sessantottini delusi, ormai quarantenni, mentre qui abbiamo dei ragazzi poco più che ventenni, appena laureatisi alla Georgetown University di Washington DC, tutti proiettati verso il futuro.
C’è Billy (Rob Lowe), scavezzacollo sposato, che suona il sassofono e vive alla giornata; Wendy (Mare Winningham), paffuta e ingessata verginella dell’alta società che non riesce a 'sistemarsi'; Kevin (Andrew McCarthy), aspirante giornalista che vorrebbe dedicarsi a scritture profonde ma che per sopravvivere compone necrologi; Jules (Demi Moore), la sciroccata del gruppo, drogata, zoccola e festaiola, impiegata in una grossa banca d’affari; Alec (Judd Nelson) yuppie democratico che per gonfiare ancor di più il portafogli non esita a cambiare partito; Leslie (Ally Sheedy), architetto, storica fidanzata di Alec, che dubita della stabilità della propria relazione; Kirbo (Emilio Estevez), laureato in legge che studia per diventare avvocato ma che si mantiene come cameriere, vanamente innamorato da una vita della fresca dottoressa Dale (Andie MacDowell). Con così tanti personaggi, è meglio non aspettarsi una trama forte, la quale avrebbe finito per imbrigliare le tante linee narrative. Il film si fa apprezzare per l’affiatamento del cast, così come per la spigliatezza e la sincerità dei dialoghi, ora cinici, ora malinconici (ad esempio: "L'amore è un’illusione creata dai tipi, avvocati come te, per eternare un’altra illusione, il matrimonio, per creare la realtà del divorzio e degli avvocati divorzisti!"). Su tutta la pellicola aleggia la sensazione che ormai la spensierata giovinezza sia finita, che i tempi passati si possano solo rimpiangere e mai più rivivere. Per un prodotto hollywoodiano dell’epoca, così a metà strada tra disillusione e rampantismo, non è poco. Sceneggiatura del regista e di Carl Kurlander, fotografia in Metrocolor (2,35:1) di Stephen H. Burum; colonna sonora di David Foster col noto brano Man In Motion di John Parr. Piccola parte per Martin Balsam nei panni del padre di Wendy. Per via di questo titolo e di Breakfast Club (1985) di John Hughes, il folto cast venne etichettato come "Brat Pack" ("banda di monelli") da David Blum in un articolo sul settimanale New York, rivisitazione leggermente dispregiativa del "Rat Pack" capeggiato da Frank Sinatra decenni prima. Quest’etichetta non piacque molto ai giovani attori (Estevez disse al giornalista "Mi hai rovinato la vita"), molti dei quali – vedi McCarthy (Weekend con il morto, Bella in rosa, Only You) – ebbero successo solo negli Eighties.
St. Elmo’s Fire ebbe un clamoroso successo negli USA, ove è tuttora un film di culto.

CRITICA: ***

VISIONE CONSIGLIATA: I

domenica 1 luglio 2012

Proiezioni estive "intelligenti" al cinema ABC

18 milioni. È tanto che valeva agli occhi di turisti acculturati Anna Longhi a riposo in un’installazione alla Biennale di Venezia, nei panni della moglie di Alberto Sordi nelle Vacanze intelligenti da lui dirette nel 1978 (parte del film a episodi Dove vai in vacanza? targato anche Bolognini e Salce). 

Ma lo stesso titolo porta la rassegna estiva dello storico cinema barese ABC, che dal 3 luglio al 9 agosto proporrà per la seconda volta titoli selezionati dalla ricca Cineteca lucana, resa possibile dalla Apulia Film Commission. Non a caso l’immagine presente su tutti i materiali promozionali è una foto in bianconero dell’artista inglese Gemma Marmelade che richiama la suddetta esilarante, memorabile scena. 

È stata presentata la tarda mattinata di giovedì 28 giugno presso lo stesso ABC, «il primo cinema d’essai d’Italia, nato oltre 35 anni fa», come ricorda la titolare Francesca Rossini, affiancata dalla presidente di AFC Antonella Gaeta e dal direttore artistico del Circuito d’Autore Angelo Ceglie. 

L’intento è quello di ripetere il successo della scorsa edizione, la prima, che vide affluire in sala ben 1400 spettatori. Tutti felici di poter (ri)vedere su grande schermo film di un passato più o meno recente (all’incirca dal 1980 al 2010), raggruppati in quattro sezioni tematiche, ovvero: “L’uomo in più” il martedì, “Variazioni sul nero” il mercoledì, “Il futuro è ora” il giovedì, “1992” il venerdì e “Let England Shake” il fine settimana. Si tratta di lavori che hanno avuto successo di critica, ma che spesso allo stesso tempo non sono stati fenomeni al box-office. 

Il titolo di apertura – a visione gratuita – è Un cuore in inverno, che proprio qui venne proiettato in anteprima nazionale il 25 dicembre 1992, restando in sala ben tre mesi. Il biglietto d’ingresso per gli altri film sarà di soli 3 Euro, «un costo popolare e sotto certi aspetti rischioso per la microimpresa ABC» a detta della Rossini.

Il patto tra AFC e la colossale cineteca di Oppido Lucano (la quale conserva circa 30.000 pellicole e 800 proiettori e macchine di pre-cinema) dura un anno e costa 15.000 euro, e permette al Circuito d’Autore di attingere ad essa senza limiti, diffondendo film per tutte le venti sale pugliesi. Così tanti titoli – artistici, documentari o cinegiornali – in 16 o 35 mm potranno rivivere nei mesi a venire, magari anche previa digitalizzazione: infatti nel giro di un anno tutte le sale diranno addio alla fragile celluloide...

Pubblicato sulla testata Fermenti Divi

sabato 23 giugno 2012

Film in sala: Giugno 2012

Il primo del mese è uscito nelle sale Love & Secrets, thriller sentimentale con Gosling e la Dunst su una famosa e irrisolta vicenda di cronaca newyorchese degli anni Ottanta. Stessa programmazione per: Viaggio in paradiso e Killer Elite, due action rispettivamente con Mel Gibson e la coppia Statham-Owen; Marilyn è su un breve amore della Monroe; il drammatico Margaret, dal cast di lusso, è su un immedicabile rimorso; Lorax – targato Dreamworks – è un educativo film d’animazione sull’inquinamento ambientale.

Sono stati anche distribuiti, con mesi e mesi di ritardo: La guerra è dichiarata, dramma che inneggia alla vita, inaspettata rivelazione a Cannes 2011; e Il mundial dimenticato, apprezzato mockumentary sull’insabbiato (mai avvenuto) mondiale di calcio tenutosi in Argentina nel 1942, sempre negato dalla FIFA.

Il 5 Giugno è stato il giorno di La vita negli oceani, diretto da Jacques Perrin, già autore de Il popolo migratore; mentre il 6 è toccato a Project X, scatenata e lodata commedia giovanilistica su una straripante festa domestica, però insolitamente girata à la Cloverfield.

L’8 solo tre titoli sono stati rilasciati l’innocua commedia bestiole-e-figlioli La mia vita è uno zoo con Damon e la Johansson; il documentario a episodi (e più registi) 7 giorni all’Havana; e la seconda, patinata regia di Madonna, alle prese con la vita di Edoardo VIII di Windsor e di sua moglie in Edward e Wallis.

Il documentario pugilistico Klitschko esce il 12, mentre il giorno dopo c’è la re-release di La Bella e la Bestia, stavolta in 3D.

Il 15 Giugno ben otto i titoli ad arrivare nelle sale: Le paludi della morte, torbido thriller poliziesco girato dalla figlia di Michael Mann; la commedia francese al femminile Adorabili amiche; la commedia poliziesca 21 Jump Street, derivata dall’omonima serie TV anni Ottanta; il solito mockumentary con Sascha Baron-Cohen, stavolta nei panni di un dittatore nordafricano epigono di Gheddafi ne Il dittatore. C’è spazio anche per l’applauditissimo C'era una volta in Anatolia, film turco premiato col Gran Prix a Cannes 2011; per la commedia crocieristica francese Benvenuti a bordo; per l’horror nostrano Paura, targato Manetti Bros.; nonché per Venti Anni, documentario italiano sulla caduta del muro di Berlino.

Cinque giorni dopo tocca al musical sull’hard rock anni Ottanta Rock Of Ages, con un quasi irriconoscibile Tom Cruise; e all’horror Chernobyl Diaries – La mutazione, in cui s’immagina che la cittadina ucraina di Pripyat sia popolata da mostri nati in seguito allo storico disastro nucleare.

Altre quattro pellicole in arrivo il 22 Giugno: il dramma scolastico Detachment - Il distacco, ritorno alla regia di Tony Kaye; i due francesi Un amore di gioventù (dramma sentimentale) e Chef (commedia culinaria); l’italiano drammatico Cronaca di un Assurdo Normale.

Il 26 esce Marley, il primo documentario autorizzato sul re del reggae, diretto dal premiato Kevin Macdonald. Il giorno dopo tocca alla commedia demenziale dei Farrelly Bros. I tre marmittoni; all’omonimo prequel del celebre horror carpenteriano La cosa; alla commedia italiana a base di corna Qualche nuvola, dal cast folto e giovane; alla commedia francese L'amore dura tre anni, in cui un critico letterario vedrà incrinarsi le proprie convinzioni sulla (scarsa) durata di un amore.


Il cammino per Santiago, commedia drammatica di Emilio Estevez, dal bel cast, è l’ultima uscita del mese: sarà sugli schermi solo dal 29 Giugno.

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Fermenti Divi

lunedì 28 maggio 2012

Film in sala: Maggio 2012

Il primo del mese è stato il giorno di Hunger Games, che ha sfondato i botteghini nordamericani, ma che non pare produrre lo stesso effetto sul nostro pubblico, molto probabilmente a causa della scarsa conoscenza dei romanzi da cui è tratto.

Il 3 è uscito Cadenas, documentario nostrano su un’insolita pratica ferroviaria in Sardegna. Il giorno dopo è toccato al film d’animazione Seafood; alla sguaiata commedia francese Gli infedeli (VM 14), diretta da sette registi; al drammatico Ulidi piccola mia, su una diciottenne uscita da una comunità di recupero; nonché all’ennesimo American Pie – Ancora insieme.

Il 9 Maggio è stato il giorno del britannico Chronicle, sorta di Heroes (la famosa serie su persone che scoprivano di avere superpoteri) all’insegna della devianza minorile.

Molte le uscite dell’11 Maggio: l’ardito Napoli 24, affresco della città partenopea firmato da ben ventiquattro cineasti; i francesi Special Forces – Liberate l’ostaggio (d’azione) e (i drammatici) Tutti i nostri desideri con Vincent Lindon e l’acclamato Sisters con Léa Seydoux; l’ultimo dell’accoppiata Burton & Depp Dark Shadows, tratto da un vampiresco serial americano degli anni Settanta. Svariati i titoli italiani: i drammatici Il richiamo, su un amore lesbico, con la Einaudi e la Ceccarelli, e Isole; la commedia Workers e il documentario Disoccupato in affitto sul mondo del lavoro; la commedia sportivo-ecclesiastica 100 metri dal paradiso, girata tra Bari e Roma.

A distanza di una settimana, il 18 Maggio, tocca al coraggioso horror Quella casa nel bosco, prodotto dai re Mida Whedon & Abrams. Esce anche Margin Call, dal cast stellare (Tucci, Spacey, Quinto, Bettany, Irons, Baker, Moore, ecc.), sulla nascita della crisi economica che c’investe tuttora; la commedia a stelle e strisce Il pescatore di sogni; l’action-thriller La fredda luce del giorno con la triade Willis-Cavill-Weaver; il dramma Another Earth. Chiude il documentario Roman Polanski – A film memoir.

Il 23 Maggio torna nelle sale la bislacca unità anti-alieni di Men In Black III, con la triade Smith-Lee Jones-Brolin; arriva finalmente anche il toccante Molto forte, incredibilmente vicino con Clooney e Von Sydow; così com’è il giorno di Operazione vacanze di Claudio Fragasso, che si presenta come una sorta di spin-off cinematografico del Professione vacanze televisivo.

Due giorni dopo, il 25 Maggio, arriva finalmente il momento dell’attesissimo Cosmopolis di Cronenberg, con un Robert Pattinson alle prese con una rilettura attualizzata – da Don DeLillo – dell’Ulisse joyciano. Ci sono anche i drammatici Silent Souls (dalla Russia) e La fuga di Martha (dagli USA); e la commedia tricolore Fallo per papà.

L’ultimo del mese esce un altro titolo britannico di fantascienza, Attack The Block – Invasione aliena, in cui giovani teppisti si ritrovano ad affrontare extraterrestri particolarmente e (giustamente) arrabbiati con loro.

Pubblicato sulla testata Fermenti Divi
[http://fermentidivi.it/index.php/focus/588-dal-controverso-tim-burton-al-ritorno-di-cronenberg-con-cosmopolis-un-maggio-a-tutto-cinema]

Locandina del giorno: Two Lovers

domenica 29 aprile 2012

Hunger Games

“Distopia”: una parola che non evoca nulla di buono. Chi non ha mai sentito parlare di 1984 di Orwell e di Fahrenheit 451 di Bradbury? Chi vorrebbe vivere in un mondo post-apocalittico in cui i cittadini sono vittime di un regime dittatoriale violento e populista?

Hunger Games è l’ultimo epigono di questo sottogenere letterario e cinematografico. Tratto dal primo, omonimo romanzo della trilogia di Suzanne Collins, è un film destinato ad un target young adult, (per capirci, quello che negli ultimi anni ha riempito le sale con la Twilight Saga e gli ultimi Harry Potter).

Gli Stati Uniti sono divenuti la nazione di Panem, costituita da dodici “distretti” poverissimi – gli abitanti sono tutti operai o artigiani che vivono quasi come mormoni – dominati dalla ricchissima Capitol City, popolata da vacui fricchettoni variopinti. Quest’ultima è la sede del perfido, sibillino presidente Snow (un imbolsito Donald Sutherland), il quale sa che per ‘tenere in vita’ il resto della popolazione basta istillare in essa un po’ di speranza…
La speranza di poter vivere a Capitol è alla base degli “Hunger Games” (lett. “i giochi della fame”), in cui una coppia proveniente da ogni singolo distretto – un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni – detti “tributi”, si scontrano annualmente tra loro in un’arena/regione grande ettari, costellata di telecamere nascoste e coperta da una cupola che simula le condizioni ambientali. Ogni violenza e scorrettezza sono contemplate dal regolamento, ma vi è solo un vincitore (o vincitrice).
Tutto per il divertimento dell’1% ricco e le flebili speranze del 99% povero. Ma non solo: la vera ragione è di origine storica, ovvero ricordare le repressioni delle rivolte che scoppiarono nei distretti 74 anni prima. È per questo che avviene il sacrificio: per ricordare a coloro che non hanno voce in capitolo che è inutile persino pensare di averla. Insomma, la testa va tenuta bassa. Un reality che è spettacolo, punizione e ammonimento allo stesso tempo.
È evidente che oltre ai due titoli prima citati, i riferimenti culturali son tanti, alti e bassi: Battle Royale, Brazil, l’Isola dei famosi, The Truman Show, Rollerball, L’implacabile, il mito di Teseo e il Minotauro… Peraltro, che alla Collins piaccia l’antichità classica è evidente, dato che molti personaggi di Capitol hanno nomi latini: Ceasar, Claudius, Cato, Cinna, Seneca…
In questo primo capitolo della trilogia cinematografica in fieri, cosa accade? Scopriamo che la protagonista è Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence, le cui spalle reggono quasi tutto il film), una sedicenne che si offre volontaria alla “mietitura” al posto della fragile sorellina dodicenne. Insieme a lei viene sorteggiato il mite Peeta (Josh Hutcherson), figlio di panificatori, che in un’occasione passata sfamò la famiglia della ragazza. Entrambi provengono dal poverissimo “Distretto 12”, il quale ha visto solo un vincitore nel corso dei decenni: è Haymitch (Woody Harrelson), che insieme al costumista Cinna (un ottimo Lenny Kravitz) darà consigli ai due su come accattivarsi le simpatie dell’affamato pubblico e su come sopravvivere alle avversità della natura e alle meschinità degli avversari.
Gary Ross (Pleasantville, Seabiscuit) torna dopo quasi un decennio in cabina di regia con questa pellicola che oltreoceano ha sbancato i botteghini, classificandosi al terzo posto degli incassi più alti in assoluto nel weekend d’uscita (dopo Harry Potter e i doni della morte – Parte II e Il cavaliere oscuro). Il che però non è garanzia per lo spettatore di trovarsi dinanzi ad un capolavoro. Se, come detto, la trama ha poco o nulla di nuovo da offrire, dati gli illustri predecessori, come spiegare tale successo? Semplice: come fu per il maghetto di Hogswarth e per i vampirelli in calore, anche qui c’è una solida fanbase di lettori che non potrà non vedere i film. Date tali premesse, la regia è costretta a mostrare pochissimo sangue e far intravedere le scene violente, ricorrendo a cineprese a spalla fin troppo mobili e a un montaggio sincopato. La fotografia del bravo Tom Stern, abituale collaboratore di Eastwood dal 2002, risulta di conseguenza un po’ anonima, così come le musiche di James Newton Howard.
Ma all’attivo il film – anche il franchise, se vogliamo – ha proprio il merito di ripetere questa vecchia lezione a spettatori che probabilmente non hanno presente nemmeno uno dei succitati titoli, avvertendoli sulla brutta strada che da fin troppi anni stanno percorrendo la televisione e la politica. Perché, come diceva Cronenberg in Videodrome, “la televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione”. E anche perché l’espressione panem et circenses, che in realtà si riferiva alla provenienza nordafricana delle bestie da arena e delle scorte di grano, è poi passata a indicare il potere che sfama le masse col panem, e distraendole coi giochi circenses. Non resta che augurarsi che gli Hunger Games riescano a inculcare nelle giovani menti questo messaggio. Perché là dove falliscono la famiglia e l’istruzione, possono farcela i libri e il cinema. Alla faccia della televisione.

CRITICA: **

VISIONE CONSIGLIATA: I

domenica 1 aprile 2012

von Sydow: mai così Max per il pubblico del Bif&st 2012

Bari, 26 marzo - Multicinema Galleria, Sala 1

Dopo la Cavani sabato e la von Trotta domenica, anche ieri mattina la terza lezione di cinema del Bif&st 2012 è stata tenuta da un vero e proprio ‘pezzo da novanta’: Max von Sydow, l’iconico attore svedese, ultraottantenne in invidiabile forma. Dopo una fugace apparizione del direttore del festival Felice Laudadio, intorno alle 11.10 ha avuto inizio la “Master Class”, così ribattezzata dal critico in veste di moderatore Marco Spagnoli. 

La prima domanda che questi gli pone è: «Come mai un solo film?», ispirata dalla proiezione dell’unica pellicola da lui diretta, Katinka (1988). E la risposta è schietta e laconica: «Perché sono un attore!» ed i presenti – appassionati di cinema, giornalisti e studenti – non possono non (sor)ridere. Si rimane in tema per un po’: von Sydow afferma di esser pigro e che per girare un film serve davvero molto tempo. Al che ripercorre la storia della produzione di Katinka, opera tratta dall’omonimo romanzo del danese Herman Bang, la cui lettura «consiglia caldamente». 

Spagnoli porta nel vivo il dibattito, puntando sulla sua biografia, chiedendo: «Quando ha deciso di diventare attore?», ma per l’illustre ospite «non è facile rispondere…», almeno sulle prime. E poi, ecco che rievoca i tempi di quando era un quattordicenne che si fece conquistare da Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, pur provenendo da una famiglia distante dal teatro e dal cinema. E di come a quindici anni mise in piedi un circolo teatrale per combattere «timidezza, solitudine, emarginazione». Ma fu Alf Sjöberg a volerlo inserire nel cast di Only A Mother (1949), dopo averlo apprezzato nella Royal Dramatic Theatre di Stoccolma da lui diretta. 

Da Sjöberg a Bergman il passo è breve. Incalzato dal critico, von Sydow ricorda di quando fu da lui avvistato – e poi reclutato – in occasione di uno spettacolo teatrale in corso a Malmö, nel sud della Sevzia, allestito da una piccola compagnia. Parla quindi della filmografia del maestro svedese: «la sua prima opera non fu rivoluzionaria, ma conteneva già la filosofia dei film successivi, e i direttori della fotografia la compresero». Ne disegna anche un profilo: «Bergman aveva grande immaginazione e senso dell’umorismo. Era più brillante e intelligente di quanto gli altri credessero. Il suo saper leggere l’anima d’acchito spaventava un po’ gli altri. Era un uomo di grande disciplina e voleva silenzio assoluto sul set. Non so dove trovasse tanta energia e tanta forza». 

Spagnoli, incarnando il punto di vista dei cinefili, evidenzia quanto l’interlocutore sia noto nella memoria collettiva come l’uomo che gioca a scacchi con la morte. Scatta quindi la domanda: «Insieme avete scritto alcune delle pagine più importanti della cinematografia internazionale. In quei momenti ne eravate consapevoli?» La risposta è un no secco. Infatti ll settimo sigillo (1957) «era un piccolo film che Bergman voleva girare già da due anni. Era più che altro una serie di monologhi. Al produttore di Stoccolma al quale lo propose parve troppo intellettuale. Solo dopo avergli fatto guadagnare molti soldi a teatro, ebbe il via. Mentre giravamo ci sentivamo presi a sperimentare, non credevamo di fare la storia del cinema». 

Ma, con oltre 140 film all’attivo, von Sydow non ha ovviamente lavorato solo in patria. Racconta di quando conobbe un uomo che si propose come suo agente a Cannes (fino ad allora non aveva mai avuto uno). Il Nostro si trovava bene in Svezia, ma solo da allora iniziò a ricevere proposte dall’estero. E così giunse la chiamata da Hollywood, che lo volle ne La più grande storia mai raccontata (1965) nei panni di Gesù Cristo. Egli rimase impressionato dai mezzi tecnici lì presenti, e pur non gradendo i film biblici si rese conto di esser parte di una produzione seria, le cui riprese durarono ben nove mesi. 

Negli USA von Sydow ha lavorato con tanti famosissimi registi, come Allen, Spielberg, Scott, Friedkin, Milius. Spagnoli indaga chiedendo: «Quali qualità hanno i registi con cui ha lavorato?» e gli risponde con un «li ammiravo da prima, e sono stato onorato di aver partecipato alle loro produzioni». A Hollywood «l’importante è cambiare ruoli. Dopo Cristo mi hanno proposto di esser papa, vescovo, prete, a causa di direttori di casting senza fantasia, ma naturalmente ho rifiutato». 

Inevitabilmente, date le tante parole spese, si considera anche il rapporto tra cinema e teatro. «Preferisco recitare a teatro che al cinema, perché sul set fai ciò che devi e quando non servi più non sai cosa sta succedendo, mentre a teatro si è insieme, si crea, si sente di appartenere a un progetto». 

Insignito solo la sera prima del Premio 81/2 al Teatro Petruzzelli, il Nostro parla del suo ultimo film, Molto forte, incredibilmente vicino di Stephen Daldry (Billy Elliott), con Tom Hanks e Sandra Bullock. In esso egli interpreta un anziano superstite del bombardamento di Dresda del ’45 che si chiude nel mutismo dopo l’11 settembre 2001: questa interpretazione gli è valsa una nomination agli scorsi Oscar (il titolo è andato al coetaneo Cristopher Plummer). «Qui recito in silenzio, cosa che non ho mai fatto prima. La scelta di non far parlare il personaggio è stata discussa in produzione e da me voluta per non rubare spazio alla figura del bambino». Il film di Daldry – che era anche candidato come miglior film - «ha uno script che mi ha commosso, e rivedendolo nelle anteprime nei vari paesi ho constatato le reazioni del pubblico. Purtroppo i distrubutori a Hollywood l’hanno fatto uscireil 1° dicembre per farlo partecipare agli Oscar. Ed ero furioso per il titolo, troppo lungo e difficile da ricordare». A riprova di quanto abbia emozionato gli spettatori, ricorda che una ragazzina che ha perduto il padre l’11 settembre l’ha voluto abbracciare a proiezione finita. 

Con le domande dei presenti si dà infine spazio al mestiere dell’attore: «È molto difficile recitare ed insegnare a recitare, descrivere il recitare. Bisogna solo farlo in continuazione. L’attore, diversamente degli altri artisti – come i pittori – è sia strumento della propria arte che l’opera d’arte stessa, e per questo non può voltarsi per vedere ciò che sta facendo, se non a film finito, almeno in teoria». E su come la sua patria tratti gli attori, dice che «in Svezia ogni artista – non solo l’attore – è tutelato». Ma si ricordano anche i suoi film italiani («Sono grato a Zurlini per Il deserto dei tartari. È stata un’esperienza incredibile. Era un grande esteta del cinema»). 

«Quali consigli dà ai giovani su come entrare nel mondo del cinema?» è l’ultima domanda a levarsi dalle rosse poltrone della Sala 1 del Multicinema Galleria. La ricetta è semplice: «Leggere tanta buona letteratura, imparare a conoscere la natura umana, guardare le interpretazioni dei bravi attori, capire i personaggi che s’impersonano senza necessariamente simpatizzare con essi. Perché recitare è anche un modo per scappare dalle preoccupazioni e dalle delusioni della vita». Nonostante tutto, afferma, «il mio cuore è più vicino al teatro che all’industria cinematografica. Ma forse sono un po’ viziato e non dovrei lamentarmi…».

domenica 25 marzo 2012

La lezione di vita di Liliana Cavani al Bif&st 2012

Bari, 24 marzo - Multicinema Galleria, Sala 1

Sono quasi le 11.15 e dopo una brevissima premessa di Felice Laudadio – direttore del Bif&st – la parola passa al suo vice Enrico Magrelli, il quale sottolinea quanto il pubblico cinefilo barese sia «competente», augurandosi che si comporti degnamente, magari ponendo domande adeguate: sta infatti iniziando la prima «lezione di cinema» del festival, quella con la nota regista Liliana Cavani.

L’attenzione vien subito rivolta ad una serie di TV movie prodotti da Claudia Mori dal titolo “Mai per amore”, tutti sulla violenze subite dalle donne, che la Rai aveva inaspettatamente ‘congelato’. Ma non appena la produzione è stata sul punto di farli proiettare al Bif&st, ecco che la TV di stato tardivamente ricorda di avere in archivio i film in questione, tutti girati da nomi di spicco (oltre alla Cavani, da Margarethe von Trotta e da Marco Pontecorvo).

La regista di Carpi ha diretto un capitolo a tema stalking e un altro sulla prostituzione. E questo compito l’ha portata a documentarsi presso i Carabinieri e fonti ufficiali. Grande è stato lo stupore, venendo a conoscenza del fatto che in Italia ci sono ben 10 milioni di ‘utenti’ che ben sanno che le prostitute sono schiave sempre controllate, e che la richiesta di minorenni (specialmente di ragazzine sui 14 anni) è elevatissima. Quanto allo stalking, almeno di consolante c’è il fatto che siano state recentemente approvate specifiche leggi che non si risparmiano nel punire i persecutori (i quali rischiano sino a 12 anni di carcere).

Dopo queste riflessioni di taglio sociale, Magrelli dà una svolta alla conversazione – a sua detta è questa la natura dell’evento, più che una “lezione” vera e propria – puntando sul personale, chiedendo: «Come mai sei arrivata al cinema dalla passione per l’antichità?». E l’illustre ospite: «Ho fatto lettere antiche, volevo fare l’archeologa… per influenze paterne». E si è infatti laureata in Lettere classiche nel ’59. Ma a portarla sulla strada asfaltata di celluloide è stata la madre, che le domeniche pomeriggio la portava con sé al cinema, col pretesto che l’avrebbe fatta giocare ai giardinetti. Eppure questa via l’è piaciuta, tanto da aver fondato nella sua città un cineclub – affinché avessero visibilità i titoli di autori stranieri di spicco, come Bergman e Bresson – e vincendo un premio di cinema che diede lustro al suo liceo, in barba al cattolicissimo professore di lettere che era lontano più che mai dalla settima arte.

Il moderatore approfitta del riferimento al cursus studiorum della cineasta, spronandola a ricordare l’espediente che mise in atto per iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, quando coinvolse un amico per girare un film che, per quanto di pessima fattura, le permise comunque di accedere alla scuola.

Ci si ricorda poi dei suoi primi incarichi alla Rai, presso la neonata RaiDue – detta «culturale» – per la quale dovette girare dei documentari sulla seconda guerra mondiale. E nel far ciò ebbe inizialmente dei problemi, dato che «conoscevo di più le Guerre del Peloponneso». E via, di corsa andò a documentarsi per conto proprio.

E dopo aver proclamato che «le guerre dimostrano che l’uomo non impara niente», non si può non dire «qualcosa su Francesco». È dei suoi film sul santo patrono d’Italia che si parla, ovviamente, «figura di transizione dal Medioevo all’Umanesimo». E così si rievoca l’impresa produttiva resa possibile nel ’65 dalla caparbia di Leo Pescarolo, che riuscì a strappare alla Rai 30 milioni di lire, persino scegliendo non un attore italiano ma lo svedese Lou Castel come protagonista, facendo arrabbiare i membri dell’MSI che addirittura con un’interpellanza portarono il loro sdegno in parlamento. Il suo secondo film – Francesco (1989) – l’ha girato «per rifletterci su ancor meglio», e a tutt’oggi è viva la tentazione di farne un altro. Non può non sorgere a riguardo qualche parola su Mickey Rourke, «l’attore più bravo che abbia conosciuto», «pieno di debolezze ma simpatico proprio per questo», purtroppo ‘rovinato’ dall’aver lavorato con Coppola. Di estrema professionalità sul set, ad esempio recitò alla perfezione una battuta che la regista avrebbe voluto tagliare perché troppo lunga, dopo aver studiato e ‘resa sua’ la scena.

E dopo aver tanto spaziato, la prima lezione del festival barese si chiude con le dure parole della Cavani sullo status politico-culturale in cui versa la nostra nazione. L’indice è puntato verso l’intellettualismo borghese che snobba ancor oggi il cinema: «spesso ci sono dibattiti interessantissimi tra studiosi di letteratura che, però, parlano tra di loro, mentre il cinema – che invece ha maggior peso mediatico – viene regolarmente abbandonato». Purtroppo «siamo culturalmente più indietro rispetto a Inghilterra e Francia di almeno 15 anni». Ci sono troppi raccomandati, troppo nepotismo. «Siamo un paese comico» in cui «non ci sono più le dittature: ci pensano i partiti a piazzare persone con zero competenze. Non si riesce a uscire dalla logica che la cultura debba essere gestita dai partiti». La chiusa è in un’amara, tristemente vera affermazione: «in Italia ora non si crede nel cinema». Dopotutto, da quanti anni su RaiUno è sparito – in favore di tante insipide fiction – il “Lunedì film” aperto dalla celebre sigla del compianto Lucio Dalla?

Pubblicato sulla testata Fermenti Divi [http://fermentidivi.it/index.php/visioni/479-de-benedictis]