domenica 30 dicembre 2007

Hot Fuzz

Londra: Nicholas Angel (Simon Pegg) è un poliziotto talmente efficiente da surclassare i suoi colleghi della Met (Polizia Metropolitana). I suoi superiori, per sbarazzarsene, lo elevano a sergente e lo spediscono a Sanford, cittadina modello immersa nella campagna. Qui, a corto di arresti, egli inizia a sospettare di ogni singola persona, sperando di potersi rendere utile. Quando poi si verificherà una serie di decessi poco chiari, investigherà tenacemente per scoprire cosa vi è dietro, affiancato dal bolso collega Butterman (Nick Frost). Finale adrenalinico.
Il secondo film della triade Edgar Wright (regista) – Pegg (anche sceneggiatore) – Frost, che portò sugli schermi L’alba dei morti dementi, è un geniale mix parodico a base di poliziesco, giallo, commedia e horror. Il tutto condito con l’impeccabile e mai sboccato english humour. Qui, più che avere una serie infinita di citazioni, abbiamo la reinvenzione dei polizieschi alla Bruckheimer (produttore di Bad Boys II, peraltro citato): il risultato ha più spessore dei modelli americani e sa intrattenere decisamente meglio, con garbo (se non si considerano alcuni passaggi splatter), intelligenza e comicità. Evidenti citazioni sono quella in apertura (da The Departed) e nel sottofinale (da Point Break). Montaggio formidabile di Chris Dickens e fotografia di Jess Hall. Camei non accreditati di Peter Jackson (il Babbo Natale che pugnala alla mano il protagonista), e di Cate Blanchett (Jeanine). Uno dei film più brillanti del 2007, assai superiore al tarantiniano Grindhouse - A prova di morte.

CRITICA: ***1/2

VISIONE CONSIGLIATA: I

giovedì 27 dicembre 2007

Nativity

La storia è arcinota: la nascita di Gesù Cristo, narrata dall’Annunciazione fino al parto di Maria nella mangiatoia a Betlemme. La regia di Caterine Hardwicke (Thirteen – Tredici anni; Lords Of Dogtown) è di taglio classico: gli eventi vengono narrati con elevata fedeltà nei confronti dei testi sacri, fortunatamente evitando di scadere nell’oleografia da santino. E’ data attenzione alla vita agreste dell’epoca e ai luoghi (anche grazie ad un uso dosato del digitale, col quale si ricreano le mura di Gerusalemme o nubi minacciose). Si prova a conferire una nuova umanità ai personaggi, ma il risultato è discutibile: l’interpretazione di Keisha Castle-Hughes (Maria) non emoziona; convincono invece Oscar Isacc nei panni di Giuseppe e Ciaran Hinds (Munich) come Erode. Innegabilmente simpatici i tre re magi in viaggio. Girato a Matera, già set per Pasolini e Gibson. Fotografia naturalistica di Elliott Davis, costumi di Maurizio Millenotti (La Passione di Cristo) e scenografia di Stefano Maria Ortolani.

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: T

lunedì 24 dicembre 2007

Spider-Man 3


Finalmente al goffo e cervelluto Peter Parker/Spider-Man (Tobey Maguire) la vita pubblica e privata vanno a gonfie vele: è fidanzato con la sua adorata Mary Jane (Kirsten Dunst) e la città di New York lo idolatra come supereroe. Soltanto il suo amico d’infanzia Harry Osborn (James Franco) continua a covare rancore nei suoi confronti, credendolo l’assassino del padre (Willem Dafoe): quest’ultimo si dichiarerà apertamente suo nemico e vestirà i panni del New Goblin. Inoltre Spider-Man si ritroverà ad affrontare l’Uomo Sabbia (Thomas Haden Church) e persino Venom (Topher Grace), dopo aver vissuto un oscuro periodo di travaglio interiore, in cui la sua voglia di vendicare il compianto Zio Ben era stata acuita da un organismo simbionte che si era fuso con la sua tuta, rendendola totalmente nera. Insomma, il Nostro avrà nemici su ogni fronte – sentimentale incluso – vista anche la presenza della sua graziosa collega di college, l’ossigenata Gwen Stacy (Bryce Dallas Howard).
Sam Raimi dirige il terzo capitolo della storica saga della Marvel Comics, al momento il film più costoso della storia del cinema (258 milioni di dollari di produzione + una quarantina per il battage pubblicitario = circa 300 milioni) puntando sul tema del doppio in ogni ambito, anche costretto dal produttore Avi Arad, che purtroppo ha voluto inserire Venom nella trama a tutti i costi, e che invece avrebbe meritato un capitolo a parte. Il soggetto del film è del regista e di suo fratello Ivan: le molte linee narrative fanno perdere in parte alla pellicola il brio dei due precedenti capitoli ed alcuni passaggi, specialmente quelli che dovrebbero meglio mostrare il “lato oscuro” di Peter, appaiono esageratamente demenziali (ad esempio quando passeggia o è al jazz-bar). Troppe coincidenze portano i singoli personaggi ad incontrarsi; spicca poi un clamoroso e tardivo intervento: quello di Bernard, maggiordomo di casa Osborn. La performance di Maguire ne risente, mentre è buona quella della Dunst ed ottima quella di Haden Church. Nulla da dire invece sulla confezione: la fotografia è di Bill Pope (la trilogia di Matrix; Spider-Man 2); le musiche di Cristopher Young (e non più di Danny Elfman); gli spettacolari effetti visivi della Sony Pictures Imageworks, supervisionati dal premio Oscar Scott Stokdyk.

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: T

venerdì 21 dicembre 2007

Le vite degli altri


Germania Est, ovvero DDR, 1984: lo scrittore Georg Dreyman (Sebastian Koch) e la sua fidanzata, l’attrice Christa-Maria Sieland (Martina Gedeck), sono la coppia più in vista nella vita culturale di Berlino Est. La loro attività non è sgradita al Partito perché “pulita”, ed è forse l’unica anche a poter essere apprezzata nei paesi non filo-comunisti. Ma il viscido Ministro della cultura (Thomas Thieme), attratto fisicamente dall’attrice, incarica la Stasi (cioè l’organizzazione di spionaggio che “garantiva” la sicurezza interna) di trovare prove che incastrino il suo uomo. Si mobilitano quindi il colonnello Grubitz (Ulrich Tukur), che ha quindi una grossa opportunità per “fare carriera”, ed il suo subordinato, il capitano Gerd Wiesler (Ulrich Muhe). Quest’ultimo seguirà la coppia in ogni momento della propria vita quotidiana. Con inaspettati e profondi cambiamenti, per tutti.
Florian Henckel von Donnersmarck, al suo primo film, conquista l’Oscar per il miglior film straniero e ben 43 premi in tutto il mondo. E giustamente. Infatti, più che un solo film, ne sembra la combinazione di 3: film di spionaggio, film di denuncia, film sentimentale. La macchina da presa ci guida, con immagini cupe e avvolgenti (molti i grandangoli usati, visti gli ambienti spesso angusti) nell’intimità violata della coppia e nella nuova, ritrovata umanità del capitano Wiesler: la storia, che sembrerebbe inizialmente fredda e cartesiana, diviene poi assai coinvolgente e ricca di colpi di scena. E con le emozioni che trasmette si dimostra un potente mezzo di denuncia contro le ottusità dei regimi, capaci di stroncare tutto quello di buono, creativo e amabile può provenire da noi.
Un’opera imprescindibile per chi ama il cinema che sa coniugare cuore e ragione.

CRITICA: ****

VISIONE CONSIGLIATA: I

 

sabato 15 dicembre 2007

Ocean's Twelve

A tre anni di distanza dal clamoroso colpo di Ocean’s Eleven, i nostri beniamini si ritrovano alle calcagna colui che gabbarono, ovvero il duro Terry Benedict (Andy Garcia), che rivuole i suoi 160 milioni di dollari (interessi inclusi). Ma i nostri hanno già utilizzato (o sperperato) un bel po’ del proprio capitale: si rende necessario compiere un altro notevole colpo, stavolta in trasferta europea.
Deludente sequel del grazioso prototipo: Steven Soderbergh dirige (?) un cast pazzesco che gigioneggia in maniera irritante dall’inizio alla fine del film (vedi Clooney alla stazione che dice continuamente ai suoi: “sembro un quarantenne?”). La sceneggiatura di George Nolfi è ridotta all’osso ed è talvolta oscura: per questo il regista non può far altro che esaurire tutto il repertorio di inquadrature possibili (è infatti anche direttore della fotografia, con lo pseudonimo di Peter Andrews) e propinare musiche da lounge-bar. Triste risultato: ottima confezione, ma il pacco è vuoto. Sembra di vedere una comitiva di riccazzi glamour in gita: loro si divertono, noi no.

CRITICA: *1/2

VISIONE CONSIGLIATA: T

giovedì 13 dicembre 2007

Il giorno degli zombi

In un prossimo futuro (che sembra il presente), quasi tutta l’umanità è stata trasformata in zombi (o meglio morti viventi), da un virus del sangue. Pochissimi e pazienti scienziati, capeggiati dal genialoide Dr. Lang (chiamato dispregiativamente “Frankenstein”), condividono un’estesa rete di bunker-laboratori sotterranei con un gruppetto di soldati dal grilletto facile. I tentativi degli scienziati di rendere gli zombi meno aggressivi ed “addomesticabili” saranno stroncati dall’idiozia dei militari. Finale quasi totalmente catastrofico.
Il terzo capitolo della saga dei morti viventi, del mitico George Andrew Romero, è un horror fantascientifico iperdialogato (e ricco di turpiloquio), disteso, incorniciato da una sequenza iniziale memorabile (citata in Resident Evil) e da un sottofinale che è stato definito “il punto di non ritorno della poetica del gore e dello splatter”, con un’orgia truculenta di effetti straordinari (anche a base di animatronics) a cura di Tom Savini. Attualmente film cult, passato negli USA quasi inosservato, perché a rischio di censura totale, è stato inizialmente bastonato dalla critica (anche italiana) perché troppo sanguinoso e statico. Ma la colpa non è di Romero, bensì della tirchia casa di produzione che gli fornì poca pellicola e lo costrinse a non girare alcune scene d’azione presenti nella sceneggiatura. Forse proprio in virtù di tale “poverismo” il risultato è ancor più inquietante. Inoltre il tutto è - come sempre nel cinema romeriano - al servizio di un messaggio politico-morale, enunciato da uno dei personaggi: “tutto quello che stiamo vivendo è una punizione che Dio ci ha inflitto, perché ci eravamo dimenticati di Lui, ci credevamo i padroni del mondo”.
Fotografia coloratissima del fido Michael Gornick (Zombi) e musiche tipicamente anni ’80 di John Harrison.

CRITICA: ***

VISIONE CONSIGLIATA: A

domenica 9 dicembre 2007

Dietro le quinte: Il gladiatore

"Sotto molti aspetti è stato come girare quattro film diversi, in quanto abbiamo dovuto coordinare il lavoro di quattro troupe distinte: una a Londra, una a Malta, una in Marocco e una troupe di base che si spostava di località in località", osserva Branko Lustig.
La verosimiglianza è stata la parola chiave dell'intera produzione, nonostante la ferma intenzione di Ridley Scott di non trasformare Il Gladiatore nel resoconto di una pagina di storia. "E' stato scritto molto sull'impero romano, ma ci si chiede anche quanto vi sia di realmente appurato e quanto sia, al contrario, una mera congettura", spiega il regista.

"Quindi ho sentito che la priorità assoluta consistesse nel rimanere fedeli allo spirito dell'epoca e non tanto ai fatti. In fondo stavamo lavorando a un progetto cinematografico di fantasia, non a una ricerca archeologica".

"La cosa più importante quando si affronta una sfida come questa è scegliere i collaboratori giusti, perché, con una produzione di questa portata non si può fare a meno di delegare", aggiunge il regista.

"Io ho avuto i migliori collaboratori, gente di grande esperienza. Sapevo di potermi affidare alle loro capacità artistiche nel ricreare il mondo in cui si svolge la vicenda di questo film, e loro hanno fatto uno splendido lavoro. Si respira veramente l'odore dell'arena e l'atmosfera della città. I costumi sono autentici. Guardando il film si ha l'impressione di assistere alle vicende nel momento in cui si svolgono e di essere tornati ai tempi dei romani..."

Le riprese del film sono iniziate in una foresta vicino a Farnham, in Inghilterra, nella quale sono state ambientate le scene che si svolgono in Germania, vicino al confine più a nord dell'impero romano. Qui le legioni romane, comandate dal generale Maximus, conducono una terribile battaglia con le schiere dei germani, di gran lunga più potenti.

Il momento in cui sono state effettuate le riprese non poteva essere più propizio: la British Forestry Commission aveva decretato che la zona, nota con il nome di Bourne Woods, sarebbe stata disboscata. Ridley Scott e il resto della produzione sono stati ben felici di offrire il loro aiuto. "Gli ho detto: ci penso io. La brucio!", ricorda il regista.

La squadra dei tecnici diretta dal supervisore degli effetti speciali Neil Corbould ha lanciato in aria sedicimila frecce infuocate, mentre catapulte perfettamente funzionanti ricostruite sui modelli del periodo hanno scagliato al suolo enormi vasi di argilla. Nel corso di quattro giorni gli arcieri hanno scoccato altre diecimila frecce non incendiarie e sono state impiegate delle macchine che potevano tirare centinaia di frecce a distanza di brevissimi intervalli di tempo.

Con Russell Crowe al comando nelle vesti di Maximus, i legionari romani hanno attraversato la mischia a cavallo. Nessun operatore e nessuna macchina da presa mobile era tanto agile e veloce da riuscire a seguire i cavalli al galoppo sul terreno irregolare e attraverso gli alberi in fiamme.

Per effettuare le riprese il direttore della fotografia John Mathieson ha utilizzato un sistema di carrelli: la macchina da presa è stata montata su un'intelaiatura a reticolo d'acciaio mentre, lungo i margini del campo d'azione è stato disposto un carrello.

Quando lo scontro raggiunge il suo apice, gli interpreti, le controfigure e le migliaia di comparse sono impegnati in combattimenti corpo a corpo con spadoni, asce, lance, balestre e armamentari di vario genere. L'esperto di armature Simon Atherton e la sua squadra di tecnici hanno disegnato e realizzato appositamente per il film oltre duemila cinquecento armi, molte delle quali sono frutto di idee originali risultate da una combinazione di ricerca e innovazione.

"Ho iniziato consultando dei libri alla ricerca di riferimenti sulle armi e le armature del periodo, ma con scarsi risultati", racconta Atherton. "Così prendendo spunto da quanto sappiamo sui periodi successivi, cercando di immaginarmi l'evoluzione di alcuni di questi oggetti e tenendo ben presente che i combattimenti erano per la maggior parte corpo a corpo, siamo stati in grado di produrre alcune idee e disegni piuttosto credibili per l'epoca.

Inoltre mi sono divertito molto a sviluppare un'indicazione di Ridley, che mi ha chiesto di produrre l'equivalente antico romano delle armi automatiche: una balestra che scocca frecce a ripetizione". Atherton ha, inoltre, fornito la sua consulenza alla costumista Janty Yates per quanto riguarda gli elmi e alcune delle armature.

Anche la Yates ha effettuato un immenso lavoro di ricerca creando una straordinaria varietà di costumi, dalle scintillanti armature indossate da Maximus e da Commodo, ai sontuosi abiti di Lucilla, alle tuniche piuttosto comuni dei gladiatori.

"Credo di aver consultato migliaia di libri e visitato decine e decine di musei e gallerie", ricorda la Yates. "Abbiamo subito l'influenza delle opere di artisti quali Sir Lawrence Alma-Tadema, che è riuscito in pieno a catturare lo stile dell'epoca, e George de La Tour, dal quale abbiamo preso spunto per i tessuti e i dettagli più ricercati".

"Ci siamo affidati interamente al lavoro di questi artisti, non solo per quanto attiene ai costumi, ma anche per le scenografie degli interni", aggiunge Scott. "I pittori sono spesso i migliori referenti che si possano avere. In fondo, a pensarci bene, sono stati i fotografi della loro epoca".

I costumi indossati dai membri della famiglia imperiale sono, ovviamente, i più raffinati. Gli abiti di Connie Nielsen sono quasi interamente di seta ricamata a mano intessuta di fili d'oro che conferiscono al tessuto una lucentezza particolare. Il suo mantello invernale è stato realizzato in cachemire con fili di seta e rifiniture di pelliccia sintetica.

Tutte le calzature sono state realizzate a mano a Roma, inclusi i sontuosi sandali decorati a mano di Commodo e Lucilla. I complicati disegni dei gioielli imperiali riproducono fedelmente quelli dell'epoca e sono stati realizzati in Inghilterra dal famoso gioielliere Martin Adams, ad eccezione di un unico pezzo, al quale a contribuito la stessa Connie Nielsen.

"In un negozio di antiquariato ho trovato un anello sigillo risalente a duemila anni fa", spiega l'attrice. "Indossarlo mi ha aiutato a calarmi nella parte. Il pensiero che quell'anello fosse stato un tempo al dito di qualcuno che ha veramente vissuto nell'epoca che stavamo ricreando mi dava una grande emozione".

Il guardaroba ha avuto un simile effetto anche su Joaquin Phoenix. "Nell'istante in cui ho mi sono messo il costume mi sono sentito in un mondo del tutto diverso", racconta l'attore. "E' stato fantastico. Dopo un pò non mi sembravano più dei semplici costumi di scena, erano abiti veri e mi hanno aiutato a trasformarmi in Commodo".

Al pari della Nielsen, anche Phoenix indossa tuniche e mantelli di seta, ma anche armature, che si sono rivelate molto più scomode. "La sua armatura doveva essere molto duttile, in modo da permettergli di muoversi, così è stata realizzata in gomma e ricoperta di pelle", spiega la Yates. "Ci si può immaginare facilmente che effetto ha prodotto sotto il sole di Malta".
La Yates ha creato la straordinaria armatura bianca di Commodo in modo che desse l'impressione di essere fatta di marmo, partendo dalla riflessione di Ridley Scott secondo la quale il giovane imperatore tenta di rispecchiare l'imponenza statuaria dei suoi predecessori.
L'enorme impegno fisico richiesto dal ruolo di Russell Crowe ha imposto un'armatura molto più leggera fatta di gommapiuma ricoperta di pelle. Inoltre, ogni singolo pezzo del suo costume, inclusi i pettorali, gli elmi, i gambali, eccetera, sono stati realizzati in dodici copie diverse sia per Crowe che per le sue controfigure.

"A mano a mano che le scene progredivano apparivano diverse versioni di ogni costume: quella pulita, quella sporca, quella logorata, quella insanguinata... Insomma, chiaro no?", osserva ridendo la Yates.

Il dipartimento costumi ha inoltre realizzato cinquecento tuniche da gladiatore in lino grezzo, ognuna delle quali è stata, successivamente, invecchiata. In tutto la Yates, la capo costumista Rosemary Burrows, l'assistente costumista Samantha Howarth e i loro collaboratori hanno realizzato oltre diecimila costumi, sia per gli interpreti principali che per le comparse.

La Burrows si è anche occupata dell'organizzazione dei depositi dei costumi e dei camerini di prova, quello che la Yates ha ribattezzato "la città dei costumi", impiegata come deposito e spazio per i camerini dove, ogni giorno, le duemila comparse sono state vestite, truccate e pettinate. In Inghilterra questo ha implicato bagni di fango per i legionari, che ha conferito agli attori l'indispensabile "patina del soldato".

Dall'Inghilterra, la troupe si è spostata a Ouarzazate, in Marocco, dove sono state girate le scene ambientate nel mercato nel quale Maximus viene venduto come schiavo, nella palestra per gladiatori di Proximo, e nella piccola arena, dove Maximus e Juba combattono per la prima volta come gladiatori.

Nel pieno rispetto della tradizione dei costruttori di strade dell'antica Roma, la troupe di Il gladiatore, ha tagliato, migliorato e ampliato chilometri e chilometri di strada attraverso il deserto in modo da consentire alla "flotta" di mezzi su quattro ruote, camion e autobus di attraversare il terreno roccioso. Branko Lustig ha addirittura "arruolato" l'esercito marocchino per costruire un ponte su un fiume, che la troupe ha battezzato il "ponte di Branko" e poter raggiungere i luoghi dove sono stati ambientati gli esterni.

Il Marocco ospita la più antica casbah del mondo, le cui mura risalgono a cinquecento anni fa, mentre le fondamenta sono state probabilmente realizzate all'epoca dell'impero romano. "In un certo senso il Marocco ha provveduto da solo a fornire le varie scenografie", osserva lo scenografo Arthur Max.

"Era pura magia. Arrivavi in cima a una collina e ti ritrovavi in un altro tempo. Scoprire questa antica casbah è stata una vera fortuna, tanto più che ai piedi della città c'era un campo abbandonato nel quale i locali giocano a calcio. Per noi era il luogo ideale dove erigere la piccola arena nella quale Maximus sperimenta per la prima volta la vita del gladiatore". Era fondamentale che l'anfiteatro eretto dalla produzione avesse lo stesso aspetto delle strutture architettoniche antiche che lo circondavano.

La squadra dei costruttori ha impiegato esclusivamente materiali locali e metodi rudimentali, che si sono tramandati per generazioni e generazioni, per realizzare gli oltre trentamila mattoni di fango impiegati per costruire l'edificio. "I mattoni sono fatti di semplice fango mischiato con la paglia, messo in uno stampo e essiccato al sole", spiega Max. "Quando l'arena ha preso forma sembrava veramente che fosse stata lì per secoli".

La produzione ha anche impiegato gli abitanti del luogo come comparse nell'arena e nel bazar, dove venivano acquistati sia gli schiavi che le belve feroci. Proprio come gli scenari, anche i volti bruciati dal sole dei marocchini non lasciavano trasparire che, alla fine delle riprese, avrebbero fatto ritorno al ventesimo secolo.

Una volta lasciato il Marocco, la produzione si è recata alla volta dell'isola fortificata di Malta, dove l'attendeva il compito più arduo. Malta, che presenta rovine dell'epoca pre-fenicia risalenti a circa seimila anni fa, fu annessa all'impero romano nel 218 a.C. Quale luogo migliore di questo per ricostruire il vero centro della civiltà del 180 d.C.: Roma e il suo magnifico Colosseo.

"Ogni film presenta le sue difficoltà intrinseche, ma quanto spesso può accadere di dover ricostruire l'impero romano?", osserva Ridley Scott. Arthur Max ha spiegato di essere stato avvantaggiato nella sua ricerca per quanto attiene questo importantissimo aspetto della produzione. "Ho vissuto e lavorato a Roma, dove ho svolto parte del mio apprendistato come architetto. Conoscevo i luoghi reali e la loro collocazione spaziale. Per me la difficoltà maggiore consisteva nel trovare il modo di dare l'idea della vastità dell'impero".

Max e Ridley Scott hanno visitato lo storico Fort Ricasoli, un forte spagnolo del XVII secolo riadattato in epoca successiva in baracche dalle forze di invasione napoleoniche. "Di fatto non risale all'era romana, ma lo sferzare dei venti sabbiosi l'hanno invecchiato in modo molto appropriato", spiega il regista. "Inoltre c'era anche una gigantesca piazza d'arme perfetta per ospitare il nostro Colosseo.

Arthur e io abbiamo pensato che le strutture già presenti sul luogo potevano in parte essere utilizzate come elementi scenografici e che costruire i set in mezzo agli edifici già esistenti sarebbe stato come lavorare ad un puzzle fantastico".

Nel corso di diciannove settimane oltre cento tecnici di origine inglese e duecento operai maltesi hanno lavorato alla ricostruzione del cuore dell'impero romano. La difficoltà del lavoro è stata aumentata dai forti venti e dai temporali che hanno caratterizzato il peggior inverno registrato a Malta negli ultimi trent'anni. La struttura più importante dei set era, ovviamente, il Colosseo, che è stato riprodotto con grande fedeltà.

I tempi serrati imposti dalla produzione e le limitazioni planimetriche della zona hanno reso impossibile realizzare una riproduzione in scala reale dell'imponente meraviglia architettonica a tre gradinate che ha rappresentato il mito e la cultura dell'antica Roma per duemila anni.

La squadra di costruttori diretta da Arthur Max ha quindi eretto un frammento della prima gradinata alta circa sedici metri che misurava circa un terzo della circonferenza del Colosseo. Inoltre sono stati realizzati anche i cunicoli sotterranei, che hanno implicato un sistema primitivo ma funzionale di elevatori per sollevare i gladiatori sull'arena di combattimento e la costruzione della stessa entrata.

La parte restante del Colosseo è stata ottenuta impiegando immagini realizzate con grafica computerizzata (CGI) dal supervisore degli effetti visivi John Nichols e dalla Mill Film LTD di Londra. Servendosi di alcuni modelli disegnati da Arthur Max, che sono stati inseriti nel computer, attraverso le tecniche di CGI è stata completata la circonferenza della prima gradinata e sono state interamente realizzate la seconda e la terza gradinata dell'edificio, con tanto di statue.

La CGI è stata inoltre impiegata per riprodurre il velarium, l'ingegnosa tettoia retrattile di teli utilizzata per riparare gli spettatori dalla luce accecante del sole. Nonostante le meraviglie della CGI, il set del Colosseo non presentava un livello ottimale di illuminazione. Per produrre i giochi di luci e ombre delle varie ore del giorno sull'imponente set, il direttore della fotografia John Mathieson ha optato per la realizzazione di un vero velarium in tessuto sintetico rinforzato con una maglia di fiberglass.

Lungo oltre centocinquanta metri, il gigantesco telone è stato fissato a quattordici torri d'acciaio alte circa venticinque metri. Il regista e il direttore della fotografia hanno richiesto che il telone potesse stendersi e ritrarsi tramite un sistema di cavi e carrucole controllato dal primo assistente alla regia Terry Needham e dalla sua squadra.

Gli spalti del Colosseo sono stati popolati da duemila comparse che si confondono in mezzo ai trentatré mila spettatori realizzati al computer. Nelson ha creato gli spettatori in CG riprendendo le comparse mentre eseguivano una serie di movimenti e, successivamente, riproducendoli su tabelloni bidimensionali che sono stati posizionati nei vari posti a sedere. I tabelloni sono stati quindi replicati al computer, e la squadra degli effetti visivi ha potuto così riempire il Colosseo con una folla in delirio da "tutto esaurito".

Gli elementi in CGI sono stati amalgamati perfettamente con i set e le persone reali in modo da consentire ai realizzatori di effettuare movimenti di panoramica a trecentosessanta gradi e riprese dall'altro nelle quali è impossibile distinguere gli elementi reali da quelli generati al computer.

Oltre a fornire il set per il Colosseo, Fort Ricasoli ha ospitato anche i set del palazzo dell'imperatore, del Foro, dell'anticamera del Senato del mercato romano, della residenza del senatore Gracco e di altri luoghi deputati. La grafica computerizzata è stata nuovamente impiegata per ampliare gli scenari, oltre che per catturare scorci dell'antica Roma.

La CGI ha contribuito ad aumentare la popolazione romana in varie scene, inclusa quella in cui migliaia di pretoriani si schierano per salutare il nuovo imperatore, Commodo, al suo ritorno in città. L'ultima fase delle riprese è stata effettuata in una sontuosa vigna dell'Italia del nord, che ha ospitato i set della casa alla quale Maximus desidera ardentemente fare ritorno.

Quando la produzione è rientrata negli Stati Uniti, Ridley Scott e il montatore Pietro Scalia hanno dato il via al lunghissimo processo del montaggio nello stesso studio nel quale il compositore Hans Zimmer stava lavorando alla composizione della colonna musicale insieme a Lisa Gerrard. La Gerrard ha inoltre eseguito la maggior parte delle partiture vocali.

"La voce di Lisa ha conferito al film una sonorità unica nel suo genere che contribuisce a trasportare gli spettatori in un luogo completamente diverso da quello in cui sono abituati a vivere", osserva Zimmer. Per alcune scene il compositore ha impresso alle sue musiche un forte impatto drammatico con l'ausilio di melodie per orchestra sulle quali domina il ritmo insistente delle percussioni

"Ogni film ambientato nell'epoca romana ha le sue fanfare e Il gladiatore è uno di questi, ma era mia intenzione evitare ogni cliché", commenta Zimmer. "Adoro lavorare con Hans perché compone musiche idiosincratiche", aggiunge Ridley Scott. "La musica che immagino nella mia testa mentre giro è solitamente tutt'altro che convenzionale e Hans riesce sempre a produrre una colonna musicale che conferisce al film un'identità propria".

"Questo film getta uno sguardo significativo sull'impero romano e funziona proprio per la grandezza della sua storia: una vicenda d'eroismo. Ridley è riuscito a riprodurre questo mondo in modo così perfetto da farlo sembrare reale", osserva Zimmer.

"Mi piace l'idea di creare mondi nuovi nei miei film, e Il gladiatore non fa di certo eccezione. Detto con le migliori intenzioni: mi sento come se avessimo ricostruito Roma e avessimo lottato durante tutto il nostro cammino, dal Reno al Nord Africa a Roma. Ma è stato veramente molto divertente!".

THE MAKING OF "IL GLADIATORE" ® UIP 2000









domenica 2 dicembre 2007

1 Km da Wall Street

Seth Davis (Giovanni Ribisi, già visto in Salvate il soldato Ryan) è un diciannovenne newyorchese che dice ai genitori di studiare al college, ma che in realtà gestisce una bisca clandestina nella propria abitazione da studente fuori sede. Quando il suo odiosamato padre scopre la verità, finisce quasi per essere ripudiato, ma ne riconquista (in parte) la stima non appena diviene uno dei pochi neoassunti alla J.T. Marlin, piccola e micidiale società di brokeraggio che dista 1 Km da Wall Street. Seth si farà onore fra i suoi colleghi già possessori di almeno un milione di dollari (tra cui Vin Diesel e Ben Affleck), fino a quando non si renderà conto di come tanti soldi circolino attraverso la sua società.
Scritto e diretto dall’allora ventisettenne Ben Younger (Prime), che prima di divenire regista era un broker quasi laureato in Scienze Politiche, questo mesto film dal montaggio sincopato (dovuto anche alla colonna sonora) e dai colori freddi, così come sono i personaggi senz’anima che lo abitano, (di)mostra il cinismo dei neo-yuppies degli anni Zero: essi vivono soltanto in nome dei miti del lusso e di Gekko Craig (protagonista di Wall Street di O. Stone). Frase chiave, pronunciata da Ben Affleck : “Chi dice che i soldi non fanno la felicità, non ha un soldo!”. Un’opera indubbiamente affascinante anche per chi non è pratico dell’ambiente.

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: I

Hooligans

Matt (un convincente Elijah Wood), studente americano di giornalismo, viene cacciato da Harvard per colpa di sordidi colleghi, e si trasferisce in Inghilterra presso sua sorella maggiore. Qui conosce il fratello minore (Charlie Hunnam) del cognato, un capo hooligan di una piccola squadra di calcio locale, e viene iniziato ai ‘riti’ di una vita da tifoso tanto leale quanto violento. Più di un colpo di scena nell’ultimo terzo del film.
Diretto da Lexi Alexander, ex campionessa di kickboxing, questa pellicola grigia e dura mette in scena senza mezzi termini (ottimi fotografia e montaggio) le brutalità gratuite compiute dai tifosi inglesi (solo inglesi?) pur di difendere il loro ‘onore’ e la loro ‘fede’ calcistica. Ma alla fine ciò che emerge è una dimensione di pura violenza, che con facilità si scollega da quella sportiva. La regista è stata accusata di eroicizzare gli hooligans: ma la drammaturgia del film, dal climax ascendente (iniziazione, scontri, tragedia) fornisce una secca smentita. Un film terribilmente attuale, un autentico cazzotto nello stomaco. Quello che alla fine lo spettatore si chiede è: “ma lo sport cosa c’entra con tutto ciò?”.

CRITICA: «««

VISIONE CONSIGLIATA: I

venerdì 30 novembre 2007

Crank

Un killer professionista (Jason Statham, già visto in The Transporter e in The Italian Job) decide, dopo un ultimo incarico, di abbandonare il proprio mestiere per iniziare una nuova vita con la sua amata Eve. Ma un boss emergente gli rovina il piano iniettandogli, dopo averlo riempito di botte, una dose “da cavalli” di una micidiale droga cinese che gli rallenterà sempre più il battito cardiaco, portandolo alla morte nel giro di un’ora. In così poco tempo il nostro dovrà fare di tutto per tenere elevato il tasso di adrenalina nel sangue, per trovare l’antidoto e sistemare i conti. Più di un colpo di scena nel finale.
Quest’opera prima dei due registi pubblicitari Neveldine e Taylor, è l’ennesimo aggiornamento del vecchio Due ore ancora (titolo originale D.O.A. di Rudolph Matè, del 1950), girato con uno stile audiovisivo a metà strada tra un videoclip di musica rock ed una puntata di CSI. Pellicola violenta di innegabile sagacia, magari irritante, decisamente non è per tutti i gusti: comunque alcuni passaggi sono degni di nota. Lo sboccato e brusco protagonista è la colonna portante del film. “Crank” è un termine gergale americano usato per indicare una potente ed illegale metamfetamina.

CRITICA: **

VISIONE CONSIGLIATA: A

martedì 20 novembre 2007

Pi greco - Il teorema del delirio

Chinatown. In un piccolissimo e lurido appartamento, vive in affitto Max Cohen, matematico ebreo ed ateo, che fa uso di un enorme computer (un mainframe) da lui stesso messo a punto, per scoprire gli schemi che svelano l’andamento della borsa di New York, ma anche del mondo naturale. Involontariamente guidato da ebrei zeloti e da loschi agenti di borsa pronti a ‘comprarlo’, sarà vittima di una scoperta sensazionale.
Vincitore del Premio del pubblico al Sundance Film Festival del 1998, questo gioiellino cyperpunk a basso costo di Darren Aronofski (L’albero della vita), girato in un bianco e nero sgranatissimo di forte suggestione e montato come un videoclip, finisce con il coinvolgere ed affascinare lo spettatore, sebbene più di un dettaglio alla prima visione possa sfuggire allo spettatore medio. Inevitabile qualche forzatura nella sceneggiatura: il protagonista è – come sempre – un matematico con problemi mentali e comportamentali; la matematica è la chiave di decodifica del mondo che porta gravi danni a chi (ab)usa di essa. Musiche adeguate.

CRITICA: ***

VISIONE CONSIGLIATA: I

Mio fratello è figlio unico


Un bildungsroman che vede Accio  (Elio Germano, ottimo), ragazzino della Latina degli anni ‘60, passare dalla fede cattolica a quella fascista e poi a quella comunista, spinto dal fratello operaio e dongiovanni (Riccardo Scamarcio) e attratto da una delle sue ragazze (Diane Fleri).
Uno dei migliori film italiani degli ultimi anni con giovani protagonisti, ma non per questo stupidamente giovanilistico: si tratta di una commedia drammatica dall’ampio target di pubblico. La regia di Daniele Luchetti (La scuola) lascia il segno, grazie all’uso della voce fuori campo del protagonista e per una fotografia che adotta la cinepresa a spalla, che ben rende la dinamicità ed irrequietezza della vita interiore ed esteriore dei personaggi. È evidente poi l’affetto ed il rispetto per i personaggi: tutti, anche se sullo schermo per poco, si fanno ricordare: dal prete interpretato da Ascanio Celestini, al venditore di panni e mentore fascista Luca Zingaretti, alla sofferente madre Angela Finocchiaro. Magari gli eventi rivoluzionari di quegli anni sono inquadrati senza che siano davvero spiegati i motivi per cui fanno presa su Accio, ma questo è un problema che spunta a visione già avvenuta. Liberamente tratto dal romanzo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi.

CRITICA: ***

VISIONE CONSIGLIATA: I

venerdì 16 novembre 2007

Bobby

La lunga notte delle elezioni presidenziali americane del 1968, vista dall’albergo Ambassador, sede dei democratici, e dalla varia umanità lì di passaggio. E’ la cronaca di un sogno infranto, quello di chi sperava che Bob F. Kennedy salisse al potere battendo il senatore McCarthy, ponendo fine alla carneficina del Vietnam, che mieteva le sue vittime fra la gioventù americana. Ma il tutto è pronto ad essere letto come parafrasi della nostra contemporaneità.
La narrazione prosegue passando da una microstoria ad un’altra: ognuna è più o meno legata alla speranza di un cambiamento in positivo della società dell’epoca; la colonna sonora Mark Isham funge da collante. Notevole l’ultima parte del film, con la sequenza dell’attentato e con il discorso del compianto Bobby che sottolinea il contrasto tra la brutalità del presente e la luminosità di un futuro smarrito per quei colpi di pistola esplosi su di lui e sulla folla. Il cast, straordinario, comprende Harry Belafonte, Laurence Fishburne, Heather Graham, Anthony Hopkins, Helen Hunt, Shia LaBeouf, Lindsay Lohan, Demi Moore, Martin Sheen, Christian Slater, Elijah Wood, William H. Macy. Spiccano perticolarmente le interpretazioni di una mesta e insolita Sharon Stone parrucchiera e quella di Freddy Rodriguez nei panni di un cameriere appassionato di baseball.
Il regista, Emilio Estevez (figlio di Martin Sheen – vero nome Ramon Estevez) dirige con competenza e invisibilità; appare in una delle prime scene con un cagnolino in braccio e lo si vede sporadicamente lungo la pellicola. Ottima la fotografia “naturalistica” di Michael Barret, che evita i consueti colori pop anni ’60: la storia narrata proprio non li richiede.

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: I

giovedì 15 novembre 2007

The Dentist 2

Il dottor Feinstone (il bravo Corbin Bernsen, anche produttore) riesce ad evadere dal manicomio criminale di Los Angeles ove era stato rinchiuso al termine del primo capitolo. Ora, sotto falso nome giunge a Paradise, cittadina della provincia americana e prende il posto dell’inetto dentista del luogo: inizialmente riesce a reprimere le sue vecchie tendenze omicide, anche incoraggiato dalla vicina biondina; poi, provocato da un paziente logorroico e vanitoso (simile ai clienti falsi e ricchi della sua odiata clientela losangelina), inaugura una serie di atroci torture a base di trapanazioni gratuite e di estrazioni a crudo. Finale aperto di taglio demenziale.
Il seguito del primo Dentist (1996), superiore ad esso, si configura come un horror incentrato sul tema della repressione delle tentazioni e sul loro progressivo cedere ad esse: il dentista folle, vittima di un tradimento sentimentale, prova a controllarsi attraverso l’autolesionismo. Ma provocato continuamente dai concittadini, finirà col vendicarsi distruggendo le loro cavità orali, dalle quali non provengono altro che pettegolezzi e malignità.
Il regista Yuzna continua lungo la strada della critica sociale impregnata di efferatezze audiovisive (Make-Up FX di John C. Ferrante, e ottimi effetti sonori), anche se qui non si vola alto come in Society – The Horror, che resta il modello di base a livello di struttura narrativa, e dal quale recupera alcuni volti. Musiche non all’altezza.

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: A

sabato 3 novembre 2007

The Descent - Discesa nelle tenebre

Sei atletiche e giovani amiche si riuniscono annualmente per compiere spericolate imprese sportive. A un anno di distanza dall’ultimo incontro, a base di rafting, decidono di esplorare un complesso di grotte al di sotto dei Monti Appalachi (USA), sperando anche che una di loro, Sarah, riesca a metabolizzare la morte di suo marito e di sua figlia, risalente proprio a un anno prima.
Questa cupissima pellicola di Neil Marshall, britannico di talento, è uno dei migliori horror degli ultimissimi anni. All’inizio dominano la tensione e l’oscurità avvolgente: lo spettatore è, come le giovani, costretto a procedere in un ambiente sconosciuto. E qui il regista si dimostra abilissimo nello sfruttare l’innata paura del buio e la claustrofobia presenti in ognuno di noi. Nella seconda parte, oltre ai vari contrasti fra le donne, dagli esiti clamorosi, fanno la loro comparsa degli ominidi viscidi, ciechi e affamati, con sanguinose conseguenze.
Il film ha più di un motivo di pregio: ha un cast insolitamente tutto al femminile; si distacca nettamente dagli eterei horror asiatici attuali scegliendo la concretezza (o meglio l’onestà) nel mostrare l’orrore; presenta trovate visive; non è un teen horror modaiolo.
Gli esterni sono stati girati in Scozia, mentre le grotte sono tutte ricreate in studio (ma nessuno lo direbbe). L’uso del digitale è misurato, impercettibile e funzionale.

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VISIONE CONSIGLIATA: A


martedì 30 ottobre 2007

Transformers

Siamo nel presente. Dal pianeta Cybertron giungono sulla Terra due fazioni di robot antropomorfi in lotta fra loro: gli Autobots e i Decepticons. I primi sono pacifici, i secondi votati alla distruzione. Entrambi mirano da secoli, in incognito su vari pianeti, a ritrovare il colossale Cubo di Energon, capace di rendere 'trasformabili' tutti gli oggetti elettronici (per esempio un telefono cellulare si può trasformare in un piccolo robot, a sua volta capace di ri-trasformarsi in cellulare). Il cubo si trovava tra i ghiacci polari e venne scoperto nel XIX secolo da un esploratore americano: ma il suo discendente Sam Witwicky (Shia LaBeouf) non lo sa e viene ricercato da entrambe le fazioni robotiche. Con esiti (in)prevedibilmente piacevoli (in presenza della pupa di turno Megan Fox) o catastrofici in varie parti del mondo.
Dai noti giocattoli Hasbro e dalla relativa serie TV di animazione cult negli anni ’80, ecco sul grande schermo la trasposizione live action dei Transformers (dopo il lungometraggio animato del 1986). Dirige Michael Bay (Armageddon, The Rock), regista fracassone dalla mano pesante, qui sorvegliata da Steven Spielberg produttore, che guarda sempre ai ragazzi con occhio di riguardo. Il film procede tra effetti speciali avanzatissimi a cura della ILM di George Lucas e tra siparietti divertenti: i migliori vedono la macchina del neopatentato Sam guidarsi da sola o cambiare musiche di sottofondo con l’autoradio a seconda del contesto.
È un peccato che nella parte finale della pellicola, con downtown Los Angeles messa a ferro e fuoco, l’azione straripi, con un accumularsi di effetti speciali al limite della recepibilità.
Due curiosità: il capo dei Decepticons, Megatron, nel cartone animato è una pistola; nella versione originale di questo film egli ha la voce di Hugo Weaving, l’agente Smith di Matrix.

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: T

venerdì 12 ottobre 2007

Scrivimi una canzone

Alex Fletcher (Hugh Grant) è un cantante in declino dell’ormai sciolto gruppo “PoP!”, che spopolava negli anni ’80 a fianco dei “Duran Duran” e simili. Lui non ha mai composto le proprie canzoni, ma ora la star emergente Cora Corman (una specie di Cristina Aguilera orientaleggiante, col cognome che richiama il noto regista/produttore di serie B Roger Corman) lo sceglie come padrino e gli chiede di prepararle il suo prossimo singolo. Il compito, arduo, si rivela possibile non appena entra in scena la sua nuova strana giardiniera (Drew Barrimore), abilissima rimatrice, con la quale finirà per stringere un rapporto sentimentale.
Marc Lawrence (Two Weeks Notice) dirige una commedia romantica (ma non troppo) impregnata di nostalgia nei confronti degli anni ’80, oggi in revival: Hugh Grant, stavolta gradevolmente sotto le righe, è decisamente divertente nei panni del cantante adorato dalle quarantenni alle rimpatriate scolastiche o ai luna park. Più convenzionale l’interpretazione di Drew Barrimore, un po’ schizzata e talvolta lagnosetta. Il film è molto 'garbato', diversamente da come appariva dai trailer che lo facevano passare quasi per demenziale. Strepitoso il finto videoclip d’epoca che apre e che chiude il film.

CRITICA: **1/2

VISIONE CONSIGLIATA: T

mercoledì 10 ottobre 2007

L'ultima legione

L’Impero Romano esiste ormai come solo ricordo: siamo nel 460 d.C. (questo dicono titoli di testa…) e Romolo Augustolo (Thomas Sangster) diviene precocemente imperatore, essendo ancora un bambino. Odoacre (Peter Mullan), generale dei Goti, invade Roma dopo aver corrotto svariati senatori e spodesta il neoimperatore, esiliandolo a Capri insieme al suo precettore Ambrosinus (Ben Kingsley). Ma pochi valorosi soldati della Guardia Imperiale guidata da Aurelio (Colin Firth) sono pronti a liberarlo.
Penosa e parziale trasposizione del best-seller di Valerio Massimo Manfredi, con la sbrigativa regia di Doug Lefler (Dragonheart II), che viene dalla TV: funzionano soltanto la fotografia di Marco Pontecorvo, i costumi e le location. Il cast, che sulla carta è buono, è sulla scena spaesato e poco convincente, anche per colpa di dialoghi micidiali. Scene d’azione mal girate, musiche anonime: un film di un’ingenuità spiazzante, ancor più evidente nel ridicolo finale.

CRITICA: *1/2

VISIONE CONSIGLIATA: T